AGI - Un reattore nucleare, anche se in stato di arresto – quindi con le barre assorbitrici di neutroni inserite nella zona attiva del combustibile – ha bisogno di continuità nella sua fase di raffreddamento. I processi di decadimento radioattivo dei prodotti di fissione, processi che continuano comunque all’interno della zona attiva del reattore (“nocciolo”), generano infatti un intenso calore che ha necessità di essere smaltito tramite un adeguato sistema di raffreddamento per evitare di danneggiare irreversibilmente il combustibile. Una situazione che potrebbe portare a quello che viene chiamato “core meltdown”, la famigerata parziale fusione del nocciolo con il conseguente rischio di rilasciare elevate dosi di radioattività nell’ambiente esterno.
Il raffreddamento di un reattore, sia nella fase di funzionamento che di arresto, ha pertanto necessità di acqua. È uno dei motivi per cui gli impianti sorgono in prossimità di adeguate sorgenti idriche, come per esempio i corsi fluviali. Il collasso della diga citata potrebbe alterare questo stato di cose. La centrale nucleare di Zaporizhzhia (Znpp) utilizza in particolare l’acqua di un invaso che si trova a monte di questa diga e l’eventuale abbassamento del suo livello potrebbe portare il sito in una situazione di emergenza.
Sgombriamo subito il campo dallo spettro Chernobyl. Anche nella condizione di un severo incidente per perdita di refrigerante, i reattori del sito non andrebbero incontro ad alcuna immediata esplosione incontrollata. Deve ovviamente essere garantito quel raffreddamento di cui si parlava più sopra per escludere che una eventuale presenza di combustibile fuso ad alta temperatura possa fuoriuscire all’esterno col rischio di penetrare nel terreno sottostante. Oltre a questo, andrebbero evitate anche le concentrazioni di idrogeno nell’impianto conseguente a reazioni chimiche, sempre ad alte temperature, che potrebbero dare luogo a esplosioni (convenzionali) lì dove dovessero accumularsi. Ma l’uso ormai consueto di moderni e opportuni ricombinatori dovrebbe escludere questa possibilità.
Va sottolineato che nei tre più gravi incidenti dell’industria nucleare – e in presenza di combustibile fuso – cioè quelli di Three Mile Island del 1979 negli Stati Uniti, di Chernobyl nel 1986 e di Fukushima nel 2011, non si è mai registrata la permeazione di combustibile fuso nell’ambiente esterno oltre la barriera di contenimento inferiore dell’impianto danneggiato. Possiamo limitarci a dire che in caso di incidente severo per perdita di refrigerante – senza preventivi interventi mitigatori e in presenza di combustibile fuso – il comportamento di Znpp potrebbe seguire al più un’evoluzione sulla falsariga di quella di Fukushima, che di fatto ha rilasciato nell’ambiente esterno una concentrazione di prodotti di fissione radioattivi – e senza emissione di una consistente nube transfrontaliera – non confrontabile con quella prodotta nell’evento esplosivo di Chernobyl, rilascio che è continuato per una decina di giorni a causa del fuoco di grafite.
Znpp conta sei reattori VVER 1000, cinque dei quali attualmente in condizione di arresto a freddo e l’ultimo adesso portato da arresto a caldo ad arresto a freddo. La differenza tra le due situazioni è legata alla termodinamica dell’impianto. Nel caso di arresto a freddo, significa che la temperatura dell’acqua si trova al di sotto del punto di ebollizione e le pompe di circolazione devono continuare a funzionare per mantenere costante la refrigerazione del sistema. Nel secondo caso, pur in condizioni di arresto e quindi lontano dai parametri di funzionamento nominali, si tiene attiva una circolazione di vapore (intorno ai 200°C o poco più) per facilitare, in questo caso, la trasmissione di calore verso la cittadina di Enerhodar, nella necessità di fornire riscaldamento in tempi brevi, agevolando così il riavvio dell’impianto.
Torniamo al problema del bacino idrico di approvvigionamento del sito che è isolato dalla corrente fluviale. La soglia critica è individuata a 12.7 metri per un corretto “pescaggio” (attualmente è intorno ai 16 metri). La IAEA valuta che tale soglia, senza che intervengano altri fattori peggiorativi, abbia bisogno di diversi mesi per essere nel caso raggiunta. Quindi, al momento non ci sarebbero rischi immediati di danneggiamento degli impianti per perdita di refrigerante derivata dal crollo della diga. Viene valutata comunque la possibilità di integrare la fonte idrica anche per altre vie.
In seguito a un cedimento della diga in oggetto causato da un terremoto, è stata considerata la possibilità di un incidente indotto dalla perdita di integrità del bacino di raffreddamento. Si è concluso che l’argine del bacino di raffreddamento presenta una larghezza significativa e che le perdite d’acqua resterebbero invariate rispetto a quelle considerate nel progetto di base.
Il problema reale si presenterebbe molto prima qualora azioni militari e/o terroristiche mirate dovessero danneggiare intenzionalmente l’integrità di questo bacino idrico di approvvigionamento del sito. Il suo collasso creerebbe una situazione che aprirebbe la strada a una significativa situazione di emergenza, se non opportunamente mitigata.
Emilio Santoro, fisico nucleare, già Dirigente di Ricerca e Direttore Responsabile del Reattore Nucleare di Ricerca TRIGA da 1 MW del Centro Ricerche Enea Casaccia e poi consulente esterno ENEA