AGI - Guerre, violenze confessionali, Stato islamico e povertà diffusa alimentano la pratica del lavoro minorile in Iraq, un fenomeno in ascesa che viaggia in parallelo con l'abbandono scolastico pur non avendo raggiunto il grado minimo di studi. Lo scrive il sito specialistico Asia News. Una storia, drammatica come tante altre, è quella di Haydar Karar, costretto a trascorrere fino a otto ore al giorno in una falegnameria a riordinare gli attrezzi e trascinare pesanti travi di legno.
Un esempio come molti, in un Paese che fatica a risollevarsi a 20 anni dall'invasione Usa che ha deposto il raìs Saddam Hussein e innescato una spirale di conflitto e terrore, culminata con l'ascesa jihadista nel 2014. Oggi ha 13 anni, ma dall'età di otto lavora nella falegnameria di proprietà di uno zio a Baghdad e la sua infanzia è costellata da molti dei problemi che hanno devastato il suo stesso Paese. "Mi hanno espulso dalla scuola a causa di una rissa - racconta all'Afp - e non mi hanno più voluto riprendere", per questo la famiglia alla fine ha deciso di procurargli un'occupazione "per costruirmi il futuro" e "permettermi di sposarmi". Oggi lavora dalle 8 del mattino alle 5 del pomeriggio, tutti i giorni, con una pausa di un'ora per il pasto.
La paga settimanale di Karar, l'equivalente di circa 20 euro (meno di tre al giorno), copre a malapena le sue esigenze e quelle di sua sorella. Entrambi vivono con un altro zio. Mohanad Jabbar, 14 anni, guadagna circa sei euro al giorno in un negozio della capitale che produce manufatti per l'edilizia. Come il fratello maggiore, egli lavora da quando ha sette anni per contribuire al sostentamento dei parenti.
"Mi piacerebbe studiare e diventare ingegnere - confessa - ma la mia famiglia ha bisogno di me" per sopravvivere. I bambini lavorano fra gli altri come apprendisti meccanici e raccoglitori di rifiuti, nei caffè o nei negozi di parrucchieri, lavano i finestrini delle auto e vendono fazzoletti di carta ai bordi delle strade. "Il lavoro minorile è in costante aumento" ammette Hassan Abdel Saheb, responsabile del dipartimento presso il ministero iracheno del Lavoro e degli affari sociali, a causa di "guerre, conflitti e sfollamenti". E a dispetto delle possibili ricchezze derivanti dal petrolio, quasi un terzo dei 42 milioni di abitanti vive in condizioni di povertà come emerge dai dati delle Nazioni Unite.
Il Paese fatica a ritrovare stabilità dopo le guerre, la corruzione, la mancanza di infrastrutture e la drammatica ascesa dell'Isis negli anni fra il 2014 e il 2017, oggi sconfitto sul piano militare, ma presente a livello di ideologia e con piccole cellule o lupi solitari attivi e pronti a colpire. Ed è proprio nelle zone un tempo sotto il controllo dello Stato islamico, in particolare Mosul nel nord che ne era diventata capitale e roccaforte, che la pratica del lavoro minorile si è diffusa maggiormente.
Come sottolinea lo stesso Abdel Saheb, il lavoro minorile - in linea teorica vietato per legge nel Paese sino all'età di 15 anni - è aumentato "in particolare nelle province invase dall'Isis". Sfruttare i bambini è punito con carcere e multa, ma "con molti nuclei rimasti senza un capo-famiglia, le madri sono state costrette a far lavorare i figli". Uno studio del ministero del Lavoro conferma un trend in crescita nelle province settentrionali di Kirkuk e Ninive, così come la stessa Baghdad.
Per cercare di arginare il fenomeno, il governo ha disposto lo stanziamento di aiuti alle famiglie più povere con indennità mensili fra i 100 e gli oltre 250 euro, a seconda del numero di bambini. Uno studio di International Rescue Committee (Irc) su 411 famiglie e 265 bambini rivelava a fine 2022 un "picco allarmante" del lavoro minorile, soprattutto nell'area di Mosul devastata dal conflitto. Nella zona, circa il 90% delle famiglie aveva "uno o più bambini lavoratori". Inoltre, il 75% circa di essi ha ammesso di "lavorare in ruoli informali o pericolosi" come la raccolta e lo smaltimento dei rifiuti o nell'edilizia.