AGI - “Per me era diventato inaccettabile collaborare con una Federazione che fa capo a un governo che non rispetta la vita, le elementari libertà della persona e che non rispetta le donne. Non era possibile lavorare per una Federazione che negava anche ciò che stava succedendo dicendomi, ‘le proteste sono normali, in ogni Paese ci sono proteste e malcontento, anche in Italia’”. Inizia così la lunga intervista-racconto concessa all’AGI da Alessandra Campedelli, l’allenatrice originaria di Mori in Trentino ‘fuggita’ dall’Iran dopo essere stata l’allenatrice capo della Nazionale femminile iraniana di pallavolo.
Campedelli parla delle problematiche vissute, delle tante promesse disattese dalla Federazione di Teheran, ma anche di come ha vissuto e delle differenze con i colleghi uomini. “È un’esperienza che ho fortemente voluto, ero entusiasta, mi ero messa in gioco consapevole che avrei incontrato delle difficoltà ma non immaginavo i tanti ostacoli per arrivare allo sviluppo della pallavolo femminile in Iran con l’obiettivo di portare negli anni la Nazionale tra le prime quattro in Asia – spiega l’allenatrice italiana –. Ben presto ho capito che la Federazione non era realmente pronta a dare tanto spazio alle donne. Per la maggior parte dei componenti erano solo parole, solo un modo per attirare le attenzioni e i favori del popolo pallavolistico e non”.
Campedelli, 48 anni, già allenatrice della Nazionale sorde d’Italia di volley, parla del post morte di Mahsa Amini, prima arrestata perché accusata di aver indossato in modo errato l'hijab e successivamente morta in circostanze poco chiare: “Non ero preparata alla situazione che si è venuta a creare dopo la morte di Mahsa, un fatto che ha condizionato molto la mia tranquillità nel lavorare e nel mettermi a disposizione di una Federazione che negava tutto”.
Sotto l’aspetto culturale l’ormai ex tecnico della nazionale iraniana racconta, “credo di aver fatto davvero tanto per andare incontro alla loro cultura, per conoscerla, per trovare un punto di incontro ma penso che la Federazione, forse, non abbia nemmeno provato a capire quanto per una donna occidentale come me, fosse difficile dover stare alle loro regole e abitudini, e che non abbia fatto nulla per venirmi incontro”.
A Campedelli chiediamo come lei donna occidentale abbia ‘convissuto’ per così tanto tempo con l’hijab. “Ogni volta che uscivo era mio dovere indossare l’hijab e uscire con braccia e gambe sempre coperte anche con le elevate temperature estive. Non è stato facile abituarmici ma erano questi gli accordi presi con la Federazione – afferma –. La cosa più difficile da comprendere e accettare è stata il perché io dovessi indossarlo anche al di fuori dell’Iran quando partecipavano ai vari tornei. All’inizio solo tante parole e promesse che poi sono state perennemente disattese”.
Alla domanda sull’attuale situazione sociale-politica in Iran, Campedelli risponde così: “preferisco non entrare in merito, posso solo dire che la situazione dallo scorso settembre è molto cambiata” e poi rivela, “non ero più libera di comunicare con il mondo esterno e con la mia famiglia visto che il governo limitava limitava addirittura l’uso di internet”. L’allenatrice trentina racconta come ha trascorso la sua vita all’interno del Centro Olimpico Azadi. “Dove vivevo non arrivava nemmeno l’eco di ciò che avveniva a poca distanza da lì – dice –. Ho vissuto in una cameretta di nove metri quadrati, con un televisore ma senza satellite, quindi per me impossibile da guardare. C’erano delle grandi finestre senza tapparelle e con le sbarre, il wi-fi non funzionava. Il campus femminile era un luogo molto frequentato, dalle 7 del mattino non c’erano momenti di reale tranquillità. La situazione era dignitosa per chi ci si deve fermare per brevi periodi, ma per un anno interno è stata davvero dura. La cosa frustrante è stata vedere gli allenatori uomini trattati in modo molto diverso, gli allenatori della Nazionale maschile vivevano a pochi metri di distanza in una struttura a 5 stelle”.
Parlando dell’aspetto professionale, Campedelli dice, “sono preoccupata per aver abbandonato le mie ragazze e le allenatrici che avevano creduto in me”. Poi aggiunge, “non ci sono i presupposti per far realmente crescere la pallavolo femminile, la Federazione cerca risultati immediati, ridicolo pensare a questo perché per provare a raggiungere i livelli delle prime dell’Asia servono anni e anni di lavoro e partire dalle giovani”. Il successo dell’allenatrice trentina è stata la medaglia d’argento ai Giochi Islamici dello scorso anno a Konya in Turchia.
“Le donne iraniane (74esime nel ranking mondiale, ndr) che non salivano su un podio dal 1966, battendo 3 a 1 in semifinale l’Azerbaijan (32/o del ranking) ha dimostrato che lavorando bene piano piano ci si può avvicinare – spiega Campedelli all’AGI –. Se la Federazione pensava davvero che con la sola mia presenza e con solo pochi mesi di lavoro si sarebbe potuto raggiungere un risultato simile, non fanno che dimostrare la loro poca competenza in materia e il loro tipico atteggiamento di pensarsi onnipotenti”.
L’intervista si conclude con una riflessione dedicata alla nostra realtà. “L’esperienza comunque è stata positiva, professionalmente ho imparato molto. Vorrei lasciare come testimonianza ai nostri giovani pallavolisti e ai nostri studenti nel dire che qui, in Italia, tra mille indubbi problemi, siamo fortunati – sostiene l’allenatrice –. Noi siamo liberi di parlare, certo, lo dobbiamo fare con educazione, siamo liberi di scrivere, siamo liberi di scegliere cosa leggere, cosa ascoltare, siamo liberi di cantare per strada, di andare in palestra uomini e donne insieme, di vestirci come riteniamo consono alla situazione, di dire la nostra, di protestare pacificamente, di avere e manifestare le nostre idee, di professare la religione che scegliamo, di manifestare il nostro affetto e le nostre emozioni anche in pubblico, di stringere la mano a un uomo per ringraziare o per salutare: i nostri ragazzi hanno la possibilità di avere un’istruzione che li renda cittadini liberi”.