AGI - Quasi le stesse parole, ripetute a meno di ventiquattro ore di distanza, non costituiscono una prova, ma forse un indizio sì. Una traccia, per lo meno, di un movimento che sembrava esaurito nelle settimane passate e magari oggi, con il murare della situazione, rinvigorito.
Da quando è scoppiata la tremenda guerra in Ucraina, con l’invasione del 24 febbraio da parte russa, la Santa Sede ha lavorato, talvolta tra difficoltà insormontabili, per allacciare un dialogo tra i due paesi in lotta.
Qualche volta con gesti che non sono stati ben compresi, come quando Francesco volle che due ragazze, ucraina l’una e russa l’altra, reggessero insieme la croce del Venerdì Santo. Pazienza e speranza, speranza e pazienza. Intanto volavano i razzi, novanta in un sol giorno ancora questa settimana, e si addensavano oscure minacce atomiche. Il mondo che temeva l’Armageddon come non era più successo dai missili di Cuba del ’62.
Il ritiro da Kherson è sembrato segnare una svolta, concomitante con le elezioni di metà mandato negli Stati Uniti; da allora anche dal Cremlino, pur con mille contraddizioni, hanno preso a giungere intermittenti ma non ignorati segnali di una prima abbozzata disponibilità.
Al tempo stesso l’Amministrazione Biden ha retto bene lo stress del caso dei razzi caduti in Polonia, tenendo a freno chi scalpitava e avrebbe voluto risposte rapide quanto irreversibili.
Insomma, seppur sul campo continua l’orrendo macello, si affacciano le ragioni per immaginare l’inizio di una svolta e il Vaticano sente rinvigorirsi, per l’appunto, la speranza. Presto per dire che sia qualcosa di più, intanto in meno di ventiquattro ore parole ben ponderate vengono ripetute quasi pedissequamente, e il particolare vorrà pur dire qualcosa.
Il primo a intervenire è stato il Segretario di Stato, il cardinal Pietro Parolin. L’uomo che la disponibilità vaticana a mediare l’aveva offerta pubblicamente fin dall’inizio dell’estate, trovando animi esacerbati e oltranzismi granitici. Ma ieri ha celebrato una messa inusualmente pubblicizzata per i trent’anni delle relazioni diplomatiche tra la Santa Sede e Kiev, ed è stato chiaro.
Premessa necessaria: di fronte a lui, in una basilica di Santa Maria Maggiore rimasta con soli posti in piedi, 80 tra ambasciatori e rappresentanti diplomatici e buona parte della nutrita comunità ucraina di Roma. Insomma, orecchie attente e spettatori interessati.
Parolin è stato chiaro. La lettura era quella di Isaia, in cui il profeta narra di deserti che possono tornare a essere giardini e giardini che possono sviluppare foreste. Una terra che da desolata può rigenerarsi con il dono della pace.
Facile immaginare quale terra sia venuta in mente agli astanti. A questo punto il segretario di Stato ha commentato: in Ucraina “a dispetto degli sforzi umani che falliscono” la pace è possibile, ma “Dio chiede la nostra disponibilità”. Perché se è vero “che la violenza e l’ingiustizia procurano non solo un danno esterno, ma anche interno” e “di qui nascono i rancori”, bisogna “tutelare un bene ben maggiore”, e porgere l’altra guancia non è altro se non realizzare la giustizia.
“Mentre l’umanità sembra andare verso lo sfacelo” e “quando si tocca il fondo” è allora che “si leva l’annuncio”, ha aggiunto. Un annuncio che non è fatto di “parole vaghe” perché “non c’è situazione così compromessa in cui lo Spirito di Dio non faccia risorgere”. Quindi “fiducia” anche se si assiste al fallimento dei tentativi di pace. E, “incoraggiati”, è il momento di “levare la supplica per la pace, la giustizia” e la sicurezza.
Ben sapendo che “Dio chiede la nostra disponibilità” in quella che è “una richiesta esplicita e diretta”. Dio infatti “non chiede cose impossibili o ingiuste” e non è impossibile “rompere il circolo vizioso” della violenza. E se “è legittimo difendersi, è doveroso difendersi interiormente” dalla logica dello scontro.
Facile, visto per l’appunto chi era seduto sulle panche di Santa Maria Maggiore, scorgere dietro queste parole un invito nemmeno troppo velato ad uno sforzo di pace anche da parte di chi ha tutte le ragioni per sentirsi colpito, e colpito ingiustamente. Un invito a non chiudersi in un atteggiamento inutilmente di chiusura, perché anche una vittoria sul campo (che gli Usa intanto definiscono difficile da ottenere) non sarebbe di per sé garanzia di una successiva pace duratura.
Il gesto di Santa Maria Maggiore diviene ancora più significativo se si considera che nelle ore in cui Parolin parlava, Papa Francesco rilasciava un’intervista a La Stampa, in vista del suo viaggio alla radici della Famiglia Bergoglio, in provincia di Asti.
Gli viene chiesto: c'è una speranza di pace per l'Ucraina? Risposta: "Sì, ho speranza. Non rassegniamoci, la pace è possibile. Però bisogna che tutti si impegnino per smilitarizzare i cuori, a cominciare dal proprio, e poi disinnescare, disarmare la violenza".
Pace possibile, speranza, disarmo. Tre concetti identici, come quasi identico è il vocabolario. Di più: "Dobbiamo essere tutti pacifisti. Volere la pace, non solo una tregua che magari serva solo per riarmarsi. La pace vera, che è frutto del dialogo. Non si ottiene con le armi, perché non sconfiggono l’odio e la sete di dominio, che così riemergeranno, magari in altri modi, ma riemergeranno".
È chiaro come tra Pontefice e Segreteria di stato ci sia un’azione più che coordinata: unica. E se Parolin ha parlato agli ucraini della comunità di Roma e agli ambasciatori, il Papa si è rivolto direttamente alle cancellerie e al governo di Kiev, nonché alla forte comunità greco-cattolica d’Ucraina. E in questo modo l’uno e l’altro hanno rilanciato un’ipotesi di mediazione che, non troppe settimane fa, appariva impossibilitata dagli eventi e dai reciproci dinieghi.
Qualora sussista qualche dubbio, ecco l’ulteriore aggiunta di Bergoglio: “Come confermiamo da mesi, e come ha dichiarato più volte il Cardinale Segretario di Stato Parolin, la Santa Sede è disponibile a fare tutto il possibile per mediare e porre fine al conflitto in Ucraina".
Repetita iuvant, insegnano i docenti di latino, E il latino resta pur sempre la lingua della Chiesa.