AGI - Le macerie del Muro di Berlino erano ancora calde, Angela Merkel era una giovane politica in folgorante ascesa con i capelli a caschetto (pochi mesi dopo sarà nominata ministro dal suo ‘mentore’ Helmut Kohl), nei discorsi si sentiva l’eco delle parole di Willy Brandt, “ora cresce insieme quel che appartiene insieme”, dopo che le folle incredule avevano attraversato il Checkpoint Charlie e gli altri varchi della capitale spaccata in due di fronte alle guardie della Ddr in stato di trance.
Oggi 3 ottobre la Germania festeggia come ogni anno la sua rinascita, la riunificazione di un Paese diviso alla fine del conflitto mondiale, emblema della guerra fredda e del mondo dei blocchi contrapposti, un’unità considerata impossibile fino a pochi prima e costruita a tempo record dopo lo sbriciolamento del Muro.
Ma che Germania è quella che oggi festeggia per la trentaduesima volta la sua “nuova storia”, una storia di rigenerazione che per decenni è stata sinonimo della speranza di un mondo migliore? È una Germania che ha paura.
Oggi il primo spettro si chiama inflazione, e il cancelliere Olaf Scholz suda sette camicie nel cercare di inviare messaggi rassicuranti al Paese.
Quel balzo al 10% fotografato dall’Ufficio federale di statistica è il picco più alto mai raggiunto dal 1951 a oggi e non solo spaventa i placidi consumatori e le più solide aziende tedesche, ma soprattutto sembra sommare nei suoi freddi numeri tutte le crisi dei nostri giorni: la guerra in Ucraina ed i rapporti con la Russia (almeno 20 anni, se non vogliamo arrivare fino alla Ostpolitk di Brandt degli anni settanta) messi sotto accusa nel Paese e nel resto del mondo, il prezzo del gas che esplode (e con esso l’errore strategico del secolo, ossia il faraonico progetto del gasdotto Nord Stream 2, in queste ore squarciato da un misterioso attentato sottomarino), le previsioni di recessione che fanno tremare i polsi.
“Ci troviamo nel pieno di una guerra dell’energia, sono in gioco benessere e libertà”: le parole del ministro alle Finanze tedesco Christian Lindner fotografano alla perfezione il senso di emergenza che attraversa la Germania. Emergenza che il governo Scholz ha deciso di contrastare con uno “scudo-monstre” di ben 200 miliardi di euro (di dimensioni pari alla totalità del Recovery Fund assegnato all’Italia), a sua volta oggetto di tensioni e polemiche in Europa: per l’ennesima volta Berlino viene accusata di correre in solitaria, in barba alla solidarietà Ue.
“Il rischio è che vengano distrutte molte delle conquiste che nei decenni sono state costruire: non lo possiamo accettare e ci difenderemo”, è sembrato giustificarsi Lindner nel presentare la muraglia di fuoco di quei 200 miliardi di euro, che serviranno per sostenere “le aziende e i lavoratori” e per costruire un tetto (nazionale) al prezzo del gas.
Una “tempesta perfetta” la definiscono i commentatori tedeschi. Perché la principale economia d’Europa va verso una recessione che porterà con sé “un calo di benessere che potrebbe essere permanente” a causa del tracollo dei consumi, così profetizzano i principali istituti di ricerca economica.
Quel 10% è più di quanto preventivato dagli studiosi, che si erano fermati ad un 9,4% preceduto dal 7,9% registrato in agosto. “Ma con questo record settantennale non è ancora stato raggiunto il picco inflattivo”, aggiunge Sebastian Dullien dell’istituto Imk.
Guardando nel dettaglio, a settembre l’energia è arrivata a costare il 43,9% rispetto al mese precedente, mentre al supermercato si spende il 19% in più. Mentre le grandi imprese ancora riescono a sostenere relativamente bene l’impatto dello shock dei prezzi energetici, il maggiore peso attualmente viene sopportato dalle famiglie, che si vedono esposte ad una massiccia perdita del potere d’acquisto.
In tale scenario, è ovvio che il governo sia sottoposto ad intemperie di ogni genere. Nei sondaggi, l’Spd di Scholz (che forma con i Verdi ed i liberali la cosiddetta coalizione ‘semaforo’) ha perduto colpi in modo permanente, in particolare a partire dall’invasione dell’Ucraina: secondo l’ultima rilevazione Fgw-Zdf, i socialdemocratici sono ormai stabilmente la terza forza politica del Paese con il 18% dei consensi, ampiamente superati non solo dall’Unione conservatrice Cdu/Csu al 27%, ma anche dai Verdi, che toccano il 22% delle preferenze. Al tempo stesso, si registra un balzo dell’Afd al 14%: per l’ultradestra è il risultato migliore da anni.
Gli osservatori concordano: la debolezza dell’Spd in buona parte dipende dalle apparenti incertezze di Scholz sul fronte ucraino, con i continui stop-and-go per quel che riguarda le forniture di armamenti pesanti a Kiev. Ma è interessante vedere ancora una volta i sondaggi per capire quanto il Paese si laceri sul tema: alla domanda se la Germania dovrebbe inviare carri armati da combattimento all’Ucraina, il 47% degli interpellati risponde sì, ed il 43% rimane certo del proprio no.
Un intreccio complesso, quello dei rapporti tra le Germania con la Russia, almeno sin dai tempi di Merkel: nonostante le tensioni (sul caso Navalny, per esempio, ma anche per gli attacchi hacker al Bundestag che sarebbero stati di origine russa, o a maggior ragione per un omicidio in pieno giorno a Berlino nel quale la Procura federale sospetta il coinvolgimento degli 007 di Putin), fino all’estremo Berlino ha difeso la linea del dialogo con Mosca.
E fino all’estremo Scholz (e Merkel prima di lui) ha difeso Nord Stream 2 come “progetto eminentemente economico”, salvo “congelarlo” all’ultimo minuto nell’imminenza dell’attacco russo. Oggi, a Berlino e nel Meclemburgo (dove attraccano i tubi della pipeline) si guarda con comprensibile orrore alle gigantesche bolle di gas in mezzo al Mar Baltico e alla nuvola di metano sui cieli dell’Europa settentrionale, quasi come fossero un’inquietante metafora di gas.
Certo, poi c’è anche il tema delle centrali nucleari: delle ultime tre ancora in attività nel grande piano di “uscita dall’atomo” deciso dal governo Mekel nel lontano 2011 sull’onda del disastro di Fukushima, due verranno mantenute in vita oltre la scadenza prevista, ossia almeno fino all’aprile 2023, sempre per far fronte all’emergenza energetica.
Tema a dir poco scottante per il ministro all’Economia e all’Ambiente Robert Habeck: volto-icona dei Verdi, non solo si trova oggi a fronteggiare le critiche dell’opposizione Cdu/Csu, ma anche il fuoco amico degli alleati liberali da una parte, e delle associazioni ambientaliste dall’altra: per i primi la svolta sulle centrali nucleari è del tutto insufficiente, per i secondi è fin troppo.
Intanto la politica fa il sudoku cercando di capire come i prezzi impazziti, le ansie pandemiche, la paura della guerra si riverbereranno sul Paese nei prossimi mesi: i primi sintomi si hanno nelle piazze. Pochi giorni fa in Brandeburgo – un esempio fa i tanti – sono scesi a centinaia per protestare contro il carovita.
A marciare fianco a fianco c’erano la sinistra della Linke, i militanti dell’ultradestra dell’Afd, i cospirazionisti dei “Querdenker” (pensatori laterali) e la destra estrema dell’Npd. Commenta il Tagesspiegel: “In questo autunno caldo si forma un fronte che i nemici della democrazia avevano sognato sin dai tempi della crisi del Covid”.
Ancora una volta sono i sondaggi a parlare: nel Brandeburgo l’Afd nelle intenzioni di voto segna un balzo del 5% al 24%, raggiungendo l’Spd in cima alle preferenze assolute degli elettori. In Bassa Sassonia, dove le urne si aprono tra una settimana, i socialdemocratici sono sì al primo posto, ma a detta degli istituti demoscopici perdono quasi 5 punti al 32% rispetto a quattro anni fa, mentre la Cdu lascia sul terreno addirittura il 6,6% fermandosi al 27%.
Qui i Verdi segnerebbero un boom di 7,3 punti, al 16%, ma anche all’ultradestra viene assegnata una forte affermazione, con un aumento del 4,8% all’11%. È la fotografia di un’incertezza, di un’inquietudine profonda.
Eppure, il 3 ottobre rimane un punto fermo. Non solo perché è un giorno di festa nazionale (alla mezzanotte tra il 2 e il 3 ottobre 1990 i Laender dell’ex Ddr, rifondati, entrarono ufficialmente nel novero dei Laender che formano la Repubblica federale tedesca), ma anche perché l’unità è ancora considerata un valore imprescindibile per i tedeschi: il 93% degli interpellati risponde che la riunificazione, anche vista con lo sguardo d’oggi, fu una decisione indubitabilmente giusta. Come dire che quel muro che crollò, questa Germania riunita, rappresenta ancora oggi un’ancora di stabilità al centro del Vecchio Continente. Almeno per ora.