AGI - Nei settantasei anni trascorsi dalla prima volta in cui anche le donne in Italia hanno potuto votare per la prima volta, nel 1946, i progressi della rappresentanza femminile nella politica non sono stati sicuramente al livello delle aspettative.
La classifica mondiale del divario di genere stilata ogni anno dal World Economic Forum, vede quest’anno l’Italia poco più su della metà classifica, al 63/mo posto su 146 Paesi, surclassata da una ventina di Paesi europei; poco meglio vanno le cose nella specifica classifica dedicata al “political empowerment” dove l’Italia è quarantesima; 36/ma per numero di donne in Parlamento, 33/ma per numero di ministri donne, ma ultima in compagnia di quasi tutti per assenza totale di leader donne in tutta la storia, almeno fino a oggi.
Il successo elettorale di Giorgia Meloni, paradossalmente una leader che non ha certo fatto della politica di genere una delle sue priorità, potrebbe far risalire l’Italia in questa specifica voce della classifica. La legge elettorale prevede le quote di genere nelle candidature di Camera e Senato; nell’ultima legislatura questo ha portato ad avere più di un terzo di elette in entrambi (al loro scioglimento, alla Camera le donne erano il 37% dei deputati e al Senato il 35%).
La prima donna ministro
Le cose sono molto migliorate dal punto di vista governativo rispetto all’immediato dopoguerra: per avere una donna ministro si è dovuto aspettare fino al 1976, quando Tina Anselmi fu scelta da Giulio Andreotti come ministra del Lavoro nel suo terzo esecutivo. Nell’ultimo governo guidato da Mario Draghi, le donne erano 8 su 23, cinque degli otto “senza portafoglio” e 3 dei quindici ministri principali. Della quarantina di sottosegretari, circa la metà erano donne, almeno in questo in giusta rappresentanza di una popolazione italiana divisa quasi esattamente a metà fra uomini e donne con una lieve prevalenza femminile (quasi 31 milioni sui 60 complessivi).
Subito dopo la guerra, la prima donna a ricoprire un incarico pubblico fu Elena Fischli Dreher, nata nel 1913 e già partigiana: fu nominata assessore all'Assistenza e Beneficenza a Milano. Prima ancora dell’elezione di 21 donne su 556 componenti dell’assemblea costituente, 13 furono convocate nella Consulta nazionale del governo Parri, che fece le veci del Parlamento fino alle elezioni dei 2 giugno 1946.
E la prima a prendere la parola fu Angela Guidi Cingolani, come le altre colleghe proveniente dall’esperienza partigiana, che successivamente, nel 1951, sarà anche la prima a entrare in un governo, il settimo guidato da Alcide De Gasperi. Nella prima legislatura, quella iniziata con le elezioni dell’8 maggio 1948, vennero elette 45 donne alla Camera, pari al 7,1% del totale dei deputati, e 4 in Senato (1,2%).
Dopo Tina Anselmi ministra, la prima donna presidente della Camera arriva tre anni dopo, nel 1979, Nilde Jotti vi sarebbe rimasta per ben tre legislature fino al 1992. Per la prima presidente del Senato occorre aspettare fino al 2018, quando Maria Elisabetta Alberti Casellati ricopre la carica nella legislatura che si è appena conclusa con lo scioglimento anticipato delle Camere lo scorso luglio. Per quanto riguarda la rappresentazione politica all’estero, nella legislatura in corso al Parlamento europeo le elette sono 30 su 76 europarlamentari italiani.
Il caso Emma Bonino
A livello di Commissione europea, sono state due le donne nominate in quota italiana nella storia: Emma Bonino, indicata dal governo Berlusconi e commissaria dal 1995 al 1999 alle politiche dei consumatori, della pesche e degli aiuti umanitari di urgenza, e Federica Mogherini. L’attuale rettore del Collège d’Europe di Bruges è stata a capo della diplomazia Ue come alto rappresentante per la politica estera dal 2014 al 2019.
Un’altra italiana, l’ex eurodeputata Monica Frassoni, è stata al vertice dei Verdi europei come co-presidente per tre mandati, dal 2009 al 2019. Circa un anno fa, suscitò polemica un’affermazione del popolare storico Alessandro Barbero: disse che le donne dovrebbero essere più aggressive e impegnarsi di più in politica. Non è l’unico a pensare che una parte della responsabilità della inadeguata rappresentazione femminile nelle istituzioni sia anche delle stesse donne.
Come spiega all’Agi la formatrice ed esperta di politiche di genere Paola Martino, “gli ostacoli alla partecipazione politica delle donne non sono solo esterni (assenza di politiche di conciliazione, scarsa propensione maschile a coinvolgere le donne nella loro attività) ma anche interni, e questi dipendono soprattutto da un fattore culturale: sono spesso le stesse donne a non voler delegare le attività a cui si sentono destinate, in particolare quelle della cura e assistenza a bambini e anziani, mentre dovrebbero osare di più, sentirsi più sicure, avere meno sensi di colpa, fare rete tra di loro e delegare di più il lavoro di cura”.