AGI - Cosa sta succedendo nel nord-est della Repubblica democratica del Congo? Ma, soprattutto, a cosa è servito l’incontro a Luanda tra il presidente congolese, Felix Tshisekedi e quello ruandese, Paul Kagame, mediato dal loro omologo angolano, Joao Lourenco, del 6 luglio? Probabilmente a nulla.
I tre dovevano trovare una soluzione alle crescenti tensioni tra Congo e Ruanda che si sono acuite con l’intensificarsi delle attività nel Nord Kivu del gruppo ribelle M23, che si riteneva sconfitto dal 2013, ma che ha ripreso le sue attività provocando decine di vittime e migliaia di sfollati. Kinshasa sostiene che i ribelli siano sostenuti dal Ruanda, quasi una longa manus di Kigali che, invece, nega in maniera decisa.
Smentite che non hanno fatto calare la tensione che, anzi, si è riaccesa dopo l’annuncio del 13 giugno scorso da parte delle Forze armate della Repubblica del Congo (Fardc) che hanno parlato di “un’occupazione della città di confine di Bunagana” da parte delle Forze di difesa del Ruanda (Rdf). Che non sia solo una disputa tra diplomazie ci sono le manifestazioni a Goma della popolazione a dimostrarlo.
Una vera e propria rivolta, una marcia verso il confine con il Ruanda al grido “dateci le armi che sconfiggeremo il nemico”, cioè Kigali. Manifestazioni che sono state sedate dalle forze di polizia del Congo.
I tre presidenti, il 6 luglio, si erano accordati per un “cessate il fuoco”, annunciato in pompa magna dal capo di Stato angolano e mediatore tra le parti. “Sono felice di annunciare che abbiamo compiuto progressi, dal momento che abbiamo concordato un cessate il fuoco”, ha detto pomposamente Lourenzo. Il presidente del Congo e quello del Ruanda, dal canto loro, avrebbero anche deciso di “creare un meccanismo di monitoraggio ad hoc” che sarà guidato da un ufficiale dell’esercito angolano.
La tensione tra i due paesi è “inutile”, ha spiegato Tshisekedi, perché “costituisce un fattore destabilizzante e non contribuisce allo sviluppo e al benessere dei rispettivi popoli”.
Kagame, dal canto suo ha ritenuto “soddisfacenti” i risultati del vertice di Luanda che prevede, tra l’altro, l’immediata cessazione delle ostilità e il ritiro immediato e incondizionato dell’M23 dalle sue posizioni.
Il giorno dopo il vertice arrivano le dichiarazioni dell’M23, una doccia fredda sugli accordi. Il portavoce del movimento ribelle, Willy Ngoma, spiega che l’accordo non “coinvolge l’M23. Siamo congolesi, non ruandesi. Se c’è un cessate il fuoco, può essere solo tra noi e il governo congolese, non abbiamo niente a che fare con il Ruanda. Ci viene chiesto di partire da qui, ma per andare dove? È impossibile”.
Probabilmente a Luanda si sono dimenticati di invitare il terzo attore delle tensioni in Nord Kivu, oppure credono davvero che i ribelli in questione siano veramente sostenuti da Kagame. Non è una questione da poco.
L’M23 è un gruppo ribelle a maggioranza tutsi - la stessa etnia che ha le redini del potere a Kigali – che ha ripreso le ostilità alla fine dell’anno scorso, accusando Kinshasa di non aver rispettato gli accordi sulla smobilitazione e il reinserimento dei suoi combattenti. Ma il giallo si infittisce.
Nessun accordo, nessun cessate il fuco ma solo una tabella di marcia comune “con obiettivi e attività chiari”, in vista del prossimo vertice di Luanda. Così il 12 luglio il governo di Kigali ha ufficialmente smentito la firma o un qualsiasi accordo di cessate il fuoco nell’est della Repubblica democratica del Congo, come invece annunciato il 6 luglio.
La smentita è stata diffusa dal ministro ruandese degli Esteri e della Cooperazione, Vincent Biruta, che ha poi aggiunto che la “disinformazione e il populismo stanno minando l’obiettivo generale di raggiungere la pace” nella Repubblica democratica del Congo. Tutto da rifare? Pare proprio di sì. Le schermaglie diplomatiche si aggiungono alle schermaglie sul campo e non fanno altro che surriscaldare gli animi.
La contesa armata tra Fardc e M23 continua e a farne le spese, come sempre, la popolazione che si trova tra due fuochi, senza comprenderne bene la ragione, sa solo che deve fuggire dalle proprie case. Il Nord Kivu continua a essere teatro di scontri e delle scorribande di gruppi armati, ribelli o no che siano, da ormai 25 anni e il governo congolese non riesce a governare il territorio dove ha decretato, l’anno scorso, lo stato di emergenza che consente all’esercito pieni poteri e libertà di azione, con risultati, tuttavia, molto scarsi ed è comprensibile visto che neanche i tre presidenti, quello congolese, quello ruandese e quello angolano, riescono a concordare una dichiarazione comune.