AGI - Cinque anni fa, celebrando il ventennale del ritorno di Hong Kong alla Cina, Carrie Lam appena eletta chief executive dell'ex colonia plaudì al successo della nota formula "un Paese, due sistemi", garantita dalla Basic Law promulgata a Pechino nell'aprile '90.
Oggi, tornando a Hong Kong cinque anni dopo, il presidente cinese Xi Jinping ha plaudito anche lui al successo di quella formula, che "ha assicurato prosperità e stabilità a lungo termine" alla Regione amministrativa speciale. Se tra il 2017 e il 2022 la formula è rimasta la stessa, e anche il plauso, i contenuti che le sono sottesi risultano profondamente cambiati.
Il vento della rivolta pro-democrazia, soffocato con la legge sulla sicurezza nazionale voluta da Pechino, ha lasciato le tracce sulla città che oggi Xi Jinping, paragonandola a una fenice, ha elogiato come "risorta dalle ceneri". Le proteste di piazza resteranno nella memoria sociale di Hong Kong anche quando saranno dimenticate, perché hanno lacerato il tessuto dell'ex colonia tra chi aderiva - anche indirettamente - al movimento e chi lo considerava con ostilita', propendendo per il pugno di ferro di Pechino.
Nel 2019 sulle strade dell'isola e di Kowloon, e nei Nuovi Territori, non si è assistito solo allo scontro fra le aspirazioni democratiche, persino di tipo indipendentista, dei più giovani, e l'amore per l'ordine dei benpensanti, ma a qualcosa di più antico. Ossia al confronto identitario sulla collocazione di Hong Kong e dei suoi figli, destinati da oltre un secolo e mezzo di Storia a fare da ponte culturale ed economico tra oriente e occidente.
C'è chi senza avere mai conosciuto la democrazia sotto il regime coloniale britannico ha finito per rimpiangerlo, perché se non il voto garantiva libertà; e chi, con un atteggiamento non nuovo, ha guardato con orgoglio all'identità della grande Cina, madre antica cui tutti i figli vanno restituiti. E che, ridiventata potenza mondiale, non più impero malato né il fragile gigante maoista, ha rivendicato la signoria anche su un lembo di terra ceduto per forza con le Guerre dell'oppio.
I processi e le condanne di molti protagonisti pro-democrazia, la fine forzata di testate giornalistiche indipendenti e di popolare tradizione, l'esilio volontario o indotto per chi rischierebbe di assaggiare il pugno di ferro di Pechino, non scivoleranno su Hong Kong come acqua sul marmo.
Se nel '97 e nei primi anni successivi all'handover, all'ombra della Basic Law, nei parchi di Kowloon potevano radunarsi i membri della Falun Gong; se a Victoria Park, per commemorare la strage di Tienanman, ogni anno si riunivano nella veglia migliaia di persone; se nel 2014 il 'Movimento degli ombrelli' con lo slogan di 'Occupy Central' fu sostanzialmente tollerato, ora quella parte di articoli della 'mini-Costituzione' dal 24 al 42, che dovevano garantire cinquant'anni di diritti e libertà fondamentali, s'è andata a sgretolare per l'intervento sempre più incisivo di Pechino.
Che dire dell'articolo 27, in cui sono sancite "la libertà di parola, di stampa e di pubblicazione; la libertà di associazione, di riunione, di corteo e di dimostrazione; il diritto e la libertà di costituire e associarsi a organizzazioni sindacali e di scioperare". L'onda del 2019 ha spazzato via le parole, ha frantumato relazioni sociali e personali, ha cambiato il volto delle università, ha portato a eleggere un nuovo leader - il successore di Carrie Lam - che si è distinto come repressore poliziesco delle proteste (che pure sfociarono talora in atti violenti la cui esplosione, in qualunque metropoli occidentale, non sarebbe stata tollerata, come l'occupazione dell'aeroporto internazionale).
Una Hong Kong più triste, con meno colori nel pantone, in una situazione economica meno felice, afflitta dalla pandemia di Covid-19 e dalla sua gestione, che ancora la tiene isolata e ne deprime il ruolo di hub regionale e globale; una Hong Kong con una generazione parzialmente sradicata e dispersa nel mondo e dove le misure maestose di sicurezza assunte oggi per la visita di Xi hanno incluso l'interdizione per molte testate giornalistiche straniere.
Tornare indietro non è pensabile nemmeno con la più fertile immaginazione. Il primo luglio 1997, quando toccanti cerimonie salutarono l'handover, il Corriere della Sera titolò il reportage di Tiziano Terzani: 'Bandiera cinese su Hong Kong - Addio a Londra tra le lacrime'. Quel giorno piovve molto su folla e bandiere. Per domani Pechino vorrebbe un cielo patriottico.