AGI - L’Africa è il continente dei paradossi. Ancora oggi, all’alba del terzo millennio, prevale il ruolo di “serbatoio” piuttosto che quello di “mercato”. Il ricchissimo continente, sul quale si affannano tutte le potenze mondiali, come all’epoca del colonialismo anche oggi finanzia i cambiamenti geopolitici del mondo ricco traendone poco beneficio per sé. Sembra che l’oltre miliardo di africani dovrà ancora attendere il treno dello sviluppo.
Eppure il continente africano custodisce sotto il suo territorio il 15% di tutte le riserve petrolifere del pianeta, il 40% dell’oro e l’80% del platino. Vi si trova il 17% di uranio, l’11% del rame, il 30% di minerali di ferro, il 7% di bauxite, il 63% di cobalto, il 46% di manganese ed è in assoluto il continente più ricco di diamanti, per non parlare delle terre rare. Un vero e proprio forziere. Uno scrigno che è anche una maledizione, però, perché questa ricchezza ha spinto molti paesi a impostare la propria economia unicamente sui proventi derivanti dalla vendita di queste risorse.
Si tratta di un ulteriore ostacolo come lo sono le monoculture agricole che molti paesi hanno ereditato dall’epoca coloniale. In sostanza non c’è diversificazione con la conseguenza che il continente dipende letteralmente dalla fluttuazione sui mercati dei prezzi del petrolio, del rame, del cobalto oppure del cotone, del cacao, del caffè. E ancora più oggi, anche a causa della pandemia da coronavirus e della crisi ucraina.
Il Pil dell’Africa, infatti, è poco più dell’1% di quello mondiale, se escludiamo il Sudafrica e la costa mediterranea. Una percentuale quasi risibile, e conferisce una capacità di acquistare merci e servizi sul mercato globale sostanzialmente inesistente.
Un paradosso, per esempio, è la carenza, che comincia a farsi sentire in tutta l’Africa, del carburante e l’innalzamento del prezzo alla pompa. Le raffinerie dell’Africa subsahariana possono, sul piano teorico, lavorare fino a 1,36 milioni di barili di petrolio al giorno, ma l’anno scorso, con molte di queste raffinerie fuori servizio o chiuse, solo il 30% di quella capacità è stata utilizzata.
Nel 2021 sono state chiuse le raffinerie in Camerun, Ghana e Senegal, così come quattro in Sudafrica. La Nigeria, il primo produttore di petrolio dell’Africa Subsahariana, estrae oltre 1,3 milioni di barili al giorno, ma i due impianti di raffinazione ancora funzionanti e in mano ai privati possono processare solo l’1% di questa quantità. Il risultato di tutto questo è che, nonostante le riserve di petrolio stimate il 125 miliardi di barili e 600 trilioni di piedi di gas naturale, i paesi africani fanno affidamento quasi esclusivamente su prodotti petroliferi importati.
Anche i principali esportatori di petrolio greggio, Nigeria e Angola, dipendono dalle importazioni per quasi l’80% del loro fabbisogno di carburante. Se non è un paradosso questo. Il rischio, inoltre, è che la scarsità e l’aumento del prezzo alla pompa del carburante possano generare proteste che vanno a minare la stabilità dei paesi, perché a questo fenomeno si aggiunge la crescita dei prezzi dei generi alimentari di prima necessità, come il pane, aggravata dalla guerra del grano, che già stanno inquietando molta parte della popolazione più povera.
Un destino amaro, quello dell’Africa? Forse. Ma non dobbiamo dimenticare che il continente è in continuo movimento, non è più il continente che veniva descritto negli anni Settanta quando si era ormai rivelata un’illusione la possibilità di uno sviluppo. L’Africa è cambiata perché anni di crescita nel resto del mondo hanno fatto letteralmente piovere sul continente denaro, campagne di vaccinazione, telefoni cellulari, tralicci, ripetitori. Ciò che non è arrivato, invece, è tutto ciò che sarebbe utile per avviare un processo di sviluppo: imprese di trasformazione o per la produzione di manufatti, un welfare degno di questo nome, strade e vie di comunicazione per valorizzare il commercio interno e interafricano. Paradossalmente quasi tutti i paesi africani hanno aderito alla regione di libero scambio nel continente. Un grande successo diplomatico e commerciale, ma per rendere fattivo quell’accordo ci vogliono merci (che non siano solo le materie prime) e strade sulle quali farle viaggiare.
E questo è un altro paradosso. Secondo Inye Briggs, principal trade regulatory presso la Banca africana di sviluppo, spedire una macchina dal Giappone ad Abidjan (Costa d’Avorio) costa 1500 dollari, mentre muovere lo stesso veicolo da Abidjan ad Addis Abeba (Etiopia) verrebbe a costare 5000. Se occorrono solo 28 giorni per muovere un container da Shanghai in Cina al porto di Mombasa in Kenya, ne occorrono addirittura 40 perché lo stesso container raggiunga Bujumbura in Burundi dal Kenya, con costi sette volte superiori. È del tutto evidente che la più grande regione al mondo in cui vige una vasta area di libero scambio rimane, per ora, un successo sulla carta.