AGI - In Etiopia, Kenya e Somalia, la siccità potrebbe uccidere una persona ogni 48 secondi. È quanto denunciano Oxfam e Save the Children attraverso il rapporto Dangerous Delay 2: The Cost of Inaction. A 10 anni dall’ultima carestia che ha fatto 260mila vittime in Somalia - la metà delle quali bambini sotto i 5 anni – la comunità internazionale rimane sorda, incapace di mettere in campo azioni efficaci di contrasto alla fame in Africa orientale.
Le due Ong spiegano che già quasi mezzo milione di persone è stato investito dalla carestia in alcune regioni di Somalia e Etiopia, mentre in Kenya 3,5 milioni soffrono la fame. Tutti gli appelli delle Nazioni Unite per la risposta umanitaria nei diversi paesi sono scarsamente finanziati, a causa di altre crisi, come quella ucraina, aggravando ulteriormente la piaga della fame in questa parte dell’Africa. In Somalia, Etiopia e Kenya, il numero di persone che soffrono la fame estrema è più che raddoppiato dallo scorso anno, passando da 10 a oltre 23 milioni.
Ciò accade in paesi stritolati da un debito che è più che triplicato in meno di un decennio - da 20,7 miliardi di dollari nel 2012 a 65,3 miliardi di dollari nel 2020 – sottraendo risorse ai servizi pubblici e a misure di protezione sociale.
Il rapporto, elaborato con il contributo dell'Osservatorio di Jameel, esamina anche i cambiamenti nel sistema di aiuti umanitari dal 2011. Si evince che, nonostante la maggiore incisività della risposta alla siccità in Africa orientale del 2017, gli interventi nazionali e globali sono rimasti in gran parte inefficaci, con la conseguenza di riportare la regione al punto drammatico in cui si trova oggi.
"Nessuno dei segnali allarmanti degli ultimi anni ha spinto i leader mondiali ad agire per scongiurare la fame. – ha detto Francesco Petrelli, esperto di finanza per lo sviluppo di Oxfam Italia – Si fa sempre troppo poco e troppo tardi. La fame è nient’altro che il fallimento della politica".
I paesi del G7 o in generale le nazioni più ricche, hanno concentrato sforzi e risorse al loro interno, per lo più per reagire a emergenze quali il COVID-19 e più recentemente il conflitto in Ucraina, anche facendo marcia indietro sugli aiuti promessi ai paesi poveri e spingendoli sull’orlo della bancarotta con il debito.
Allo stesso tempo, i governi dell'Africa orientale hanno la loro parte di responsabilità per non aver agito tempestivamente ed essersi rifiutati di riconoscere l'ampiezza e la gravità della crisi. Non hanno investito adeguatamente in agricoltura o nei sistemi di protezione sociale per sostenere le persone a far fronte ai fattori che alimentavano la fame, compresi gli shock climatici ed economici.
Il fallimento delle agenzie umanitarie
Il rapporto evidenzia, inoltre, il fallimento dei donatori e delle agenzie umanitarie nel dare priorità alle organizzazioni locali in prima linea, le sole capaci di contrastare la crisi in modo efficace e tempestivo. Siccità, conflitti e COVID-19 sono il terreno fertile di cui si è nutrita questa ennesima, tragica crisi alimentare. Ora il conflitto in Ucraina, evidenziano Oxfam e Save the Children, ha portato i prezzi del cibo a livelli mai registrati, rendendolo di fatto proibitivo per milioni di persone.
“Quasi 5,7 milioni di bambini saranno colpiti da malnutrizione acuta entro la fine di quest'anno. - ha detto Filippo Ungaro, portavoce di Save the Children - Le Nazioni Unite avvertono inoltre che più di 350 mila persone potrebbero morire se non agiremo in fretta. Ogni minuto che passa è un minuto di troppo perché un altro bambino potrebbe morire di fame, eventualità con la quale non possiamo convivere".
L’attuale siccità in Corno d’Africa, la peggiore degli ultimi 40 anni, ha bruciato le riserve economiche, decimato il bestiame, riducendo drasticamente la disponibilità di cibo per milioni di persone. Eppure, la regione non incide in modo significativo sulla crisi climatica, essendo responsabile collettivamente dello 0,1% delle emissioni globali di CO2. "Non abbiamo più mucche, sono tutte morte. – racconta Ahmed Mohamud, un pastore di Wajir, in Kenya - Ci rimangono solo alcuni cammelli e capre sopravvissuti alla siccità, ma se non arriveranno le piogge perderemo pure questi. Ora abbiamo paura che comincino a morire le persone, perché non c'è cibo".
Solo il 2% (93,1 milioni di dollari) dell'attuale appello delle Nazioni Unite per Etiopia, Kenya e Somalia è stato formalmente finanziato fino ad oggi. Nel 2017, quegli stessi paesi avevano ricevuto 1,9 miliardi di dollari in finanziamenti di emergenza. Anche se i donatori hanno promesso 1,4 miliardi di dollari di aiuti il mese scorso, è vergognoso che siano arrivati solo 378 milioni di dollari.
Cosa fare
"Si muore di fame non per mancanza di cibo o denaro, ma per mancanza di coraggio politico. – ha concluso Petrelli - In un mese i paesi ricchi hanno raccolto oltre 16 miliardi di dollari per la crisi in Ucraina e hanno iniettato nelle loro economie oltre 16 mila miliardi di dollari per rispondere all’emergenza COVID. È chiaro dunque che mobilitare risorse si può, basta volerlo”.
Secondo Oxfam e Save the Children, nel chiedere un'azione urgente, per affrontare la crisi alimentare in Africa orientale occorre che il G7 e i leader occidentali finanziano l’appello delle Nazioni Unite di 4,4 miliardi di dollari per il Kenya, l’Etiopia e la Somalia. I donatori, inoltre, devono garantire che almeno il 25% dei fondi vada a organizzazioni locali. I governi di Kenya, Etiopia e Somalia, poi, devono aumentare le misure di protezione sociale per consentire alla popolazione di resistere a molteplici shock.
Investire almeno il 10% dei loro bilanci in agricoltura, con particolare attenzione ai piccoli proprietari terrieri e alle agricoltrici, come concordato nella Dichiarazione di Malabo dell'Unione africana del 2014. I governi nazionali, poi, dovrebbero essere più solleciti nel dichiarare le emergenze, spostando le risorse verso i più vulnerabili e investendo nella risposta agli shock climatici.
L’appello delle due Ong, infine, si rivolge nuovamente alle nazioni ricche, quelle che inquinano di più: devono pagare all'Africa orientale almeno una parte dei danni causati dalla crisi climatica; cancellando allo stesso tempi i debiti per il 2021-2022 per i paesi dell’area, al fine di liberare le risorse necessarie a mitigare e adattarsi a eventi sempre più estremi e imprevedibili.