AGI - La morsa jihadista nel Sahel si fa sempre più mortale e si espande verso sud. Ne è prova l’ultimo attentato avvenuto in Togo, paese che si affaccia sul Golfo di Guinea. L’attacco subito dal paese al confine con il Burkina Faso ha causato la morte di 8 soldati togolesi e il ferimento di altri 13. I jihadisti si spingono sempre più a sud e questo dimostra che le operazioni militari per fermare il fenomeno, o per lo meno arginarlo, si sono rivelate, fino ad ora, inefficaci.
Dopo anni di missioni militari francese Barkhane ed europea Takuba, i jihadisti non hanno mai abbassato la testa, anzi, si sono fatti forti dell’incapacità degli stati del Sahel, non solo di far fronte all’insicurezza che regna nei loro territori, ma soprattutto ai bisogni reali delle popolazioni, che hanno visto arrivare sui loro territori migliaia di soldati stranieri senza che, però, le loro condizioni di vita si modificassero in meglio. I gruppi terroristi proprio su queste “negligenze” hanno costruito la loro forza e il consenso.
Se diamo uno sguardo più generale ci accorgiamo che il continente africano, nel 2021 ha registrato il 41% di tutti gli attacchi terroristici jihadisti di tutto il mondo con oltre 3mila vittime. Negli ultimi 15 anni i morti hanno superato i 30mila. Questi numeri sono stati resi noti durante la conferenza di Marrakesh in Marocco, della Coalizione internazionale anti Stato Islamico. Si nota, dunque, che l’Africa è diventata il principale obiettivi dei jihadisti.
La violenza in Africa è cresciuta del 40-60% in termini di morti e attacchi rispetto al periodo pre-pandemia e l’Africa subsahariana ha registrato il 48% dei decessi dovuti al terrorismo nel mondo. Sempre secondo i dati forniti durante la conferenza di Marrakesh gli “incidenti” terroristici nel Sahel nel periodo 2018-2021 sono aumentati del 43%, nella Repubblica democratica del Congo e in Mozambico gli attentati jihadisti sono stati quasi 500. Si contano, inoltre, più di 1,4 milioni di sfollati interni a causa del terrorismo nel Sahel. Per non contare le perdite economiche che per il continente africano hanno superato i 170 miliardi di dollari.
Secondo i dati del Comitato internazionale della Croce Rossa il conflitto in Burkina Faso ha aggravato la crisi alimentare, dove l’80% della popolazione fa affidamento sull’agricoltura di sussistenza. “Molti degli sfollati oggi si avvalgono degli aiuti umanitari per sopravvivere, e il 15% della paese sta attualmente affrontando l’insicurezza alimentare”, si legge in una nota della Croce Rossa.
Per l’insicurezza dilagante sono state chiuse più di 4mila scuole, che rappresentano il 16,5% degli istituti del paese. Questo significa che quasi 700mila studenti non hanno più accesso all’istruzione e oltre 20mila insegnanti hanno perso il lavoro.
Il governo degli Stati Uniti, co-promotore della conferenza di Marrakesh, ha annunciato un finanziamento di 119 milioni di dollari in aiuti all’Africa subsahariana per “impedire, arrestare, perseguire e condannare i terroristi”, implementando le capacità delle forze dell’ordine e del sistema giudiziario.
Durante l’incontro di Marrakesh si è posto l’accento sulla proliferazione dei fenomeni separatisti in Africa che “generano – si legge nel comunicato finale – destabilizzazione e maggiore vulnerabilità degli Stati africani e che, in ultima analisi, favoriscono lo Stato Islamico e le altre formazioni terroristiche ed estremiste violente”.
Nella nota finale viene indicato che “l’Africa Focus Group rafforzerà le capacità antiterrorismo a guida civile dei membri africani delle coalizione”, seguendo l’evoluzione della minaccia dello Stato Islamico e, in particolare, le sfide poste dalla proliferazione dei gruppi separatisti, come fattore di destabilizzazione e vulnerabilità della regione.
Forse non era il contesto ideale, ma tutta l’attenzione, per riassumerla in poche parole, è stata posta sulla risposta militare al jihadismo, l’opzione “bellica” come unica via percorribile. Nessuna parola, invece, è stata spesa sulle condizioni sociali, politiche ed economiche nelle quali vivono le popolazioni, che negli ultimi anni, nonostante l’intervento militare, si sono aggravate.
È del tutto evidente che nessuna costruzione di uno stato capace di rispondere ai bisogni dei suoi cittadini, è possibile in condizioni di perenne insicurezza, ma non rendersi conto che proprio le povertà diffuse sono un brodo di coltura ideale per il proliferare del jihadismo, è miope e, spesso, colpevole.
I paesi del Sahel hanno visto, fino ad ora, un aggravarsi delle condizioni di sicurezza e di quelle sociali. In vaste aeree della regione del Sahel i gruppi armati hanno sfruttato le insoddisfazioni locali, la mancanza di governance e le carenze di sicurezza per impossessarsi del territorio, imporre il proprio governo e controllare le attività economiche. E questo garantisce ai jihadisti il controllo pieno dei territori.
Dunque, nulla è cambiato anzi, il contesto è peggiorato. Le azioni per risolvere le questioni legate alla sicurezza non possono non essere accompagnate da un miglioramento delle condizioni di vita delle popolazioni che rimangono sempre di più ai margini, con un ruolo sempre più scenografico e non come soggetti e beneficiari dell’azione politica ed economica. Di questo dovrebbero interrogarsi gli Stati e la Comunità internazionale.