AGI - La guerra della Russia in Ucraina si colloca in un nuovo ciclo economico e geopolitico che sta emergendo, caratterizzato da una chiusura delle nazioni dentro i propri confini, una ricollocazione delle produzioni e un aumento dei prezzi, di cui l’Europa pagherà il prezzo più alto.
Questa la lettura del giornalista economico François Lenglet che, in un’intervista a Le Figaro prospetta un’inversione di marcia su liberalismo e mondializzazione, agli antipodi della vasta apertura dei confini scaturita dalla caduta del Muro di Berlino nel 1989.
Secondo il saggista francese, il conflitto in Ucraina è la diretta conseguenza del “disimpegno degli Stati Uniti dalle vicende planetarie almeno da tre presidenze”. Il presidente russo Vladimir Putin ha visto nel “ritiro caotico” degli Usa dall’Afghanistan un segnale, “un permesso di uccidere, senza temere rappresaglie”.
A ciò si aggiunge la “debolezza di Joe Biden” - che da subito ha dichiarato che il suo Paese non andrebbe a combattere in caso di invasione dell’Ucraina – mentre con l’ex presidente Donald Trump “molto probabilmente l’invasione russa non si sarebbe verificata poiché un repubblicano matto spaventa molto di più di un democratico” ha sottolineato Lenglet.
Di conseguenza, per il giornalista francese la guerra intrapresa dalla Russia “chiude un secolo di dominio degli Stati Uniti, che dalla fine della Prima Guerra mondiale aveva assunto la leadership politica, militare ed economica a scapito dell’impero britannico, fino alla vittoria straordinaria del 1989, con la caduta del muro di Berlino e il crollo del comunismo senza effusione di sangue” ha analizzato l’esperto.
A questo punto, Lenglet prevede che “imprese e capitali tornino a casa propria, seguendo un trend perfettamente simmetrico a quello avviato negli anni ’90, già in atto dall’inizio della pandemia di Covid-19 con ricollocazioni e spezzettamento delle catene di approvvigionamento mondiali”.
Come cambia il mondo
Di fatto l’uscita di scena degli Stati Uniti come “padroni del mondo” cambia tutto l’ordine geopolitico con conseguenze dirette sul sistema economico globale, ha anticipato Lenglet. Da un lato fa decadere la mondializzazione, in reazione alla quale stanno sempre più emergendo "la logica di Stato, il rischio sovranista, le passioni nazionaliste disinibite, la volontà di potenza e l’innalzamento dei confini, quindi è la fine della fine della storia”.
Il processo di deglobalizzazione già avviato comporta il ritorno all’inflazione, di cui è il primo sintomo, ma per molti economisti è un fenomeno soltanto transitorio legato all’adattamento del pianeta a un nuovo sistema economico. In prospettiva, secondo la stessa fonte, il ritorno dei confini nazionali alleggerirà la pressione della concorrenza mentre l’invecchiamento della popolazione ridurrà il numero dei lavoratori su scala mondiale, le banche centrali che hanno accumulato debiti non riusciranno a contrastare l’aumento dei prezzi.
Il costo dell’inflazione ricadrà sugli Stati, obbligati ad adottare ‘scudi tariffari’ per limitare il rincaro dell’energie, sulle aziende i cui profitti diminuiranno mentre lavoratori e cittadini vedranno ridursi il proprio potere di acquisto, anche se sul medio-lungo termine gli stipendi potrebbero essere rivalorizzati quale effetto della riduzione della forza lavoro.
Nel contesto della guerra in Ucraina, Lenglet ha valutato che “la grande vittima economica è l’Europa, a causa della sua dipendenza energetica nei confronti della Russia”. Sul vecchio continente, lo shock più forte toccherà alla Germania per la sua eccessiva dipendenza energetica da Mosca, con rischi di penuria per la sua industria. Per giunta il nuovo ordine mondiale caratterizzato da una maggiore chiusura nazionale e da restrizioni al commercio ridimensionerà la posizione di forza di un Paese che ha puntato molto sull’export.
L'Europa e la Cina
La Germania dovrà quindi “fare i conti con l’eredità Merkel e il costo esorbitante delle sue scelte azzardate di chiudere con il nucleare e di allacciare un partenariato a lungo termine con i russi per il loro gas” ha prospettato il giornalista. La Francia, invece, meno dipendente da idrocarburi ed esportazioni, subirà uno shock minore, ma dovrà procedere alla sua reindustrializzazione e rilanciare il suo programma nucleare.
Per Lenglet se c’è una nota positiva, riguarda l’Europa che finora, invece di spaccarsi, è riuscita a coalizzarsi, portando avanti un lavoro comune per far fronte alla crisi sanitaria, con una gestione efficace dei vaccini e un piano di rilancio collettivo. Stesso fronte comune sulla guerra in Ucraina, con sanzioni alla Russia, ma invece “dell’idea romantica di un esercito europeo, servono rapidamente soluzioni operative”.
In quel nuovo ordine mondiale che si sta disegnando, il saggista francese intravede invece una nuova fase di chiusura della Cina, dopo gli ultimi 40 anni di apertura secondo lui “anomala”.
In questa prospettiva l’analista prospetta un fallimento del progetto delle vie della seta – “una costosa utopia contraria ai fondamenti cinesi” – lo sganciamento dall’economia mondiale, un maggior isolamento come conseguenza dalla posizione allineata e di alleanza con la Russia.
Lenglet ha sottolineato come la natura profonda della Cina sia la chiusura e come unico interesse Taiwan e il controllo strategico del mare lungo le sue coste. Anche per la Cina sarebbe quindi giunta l’ora della chiusura rispetto alla politica della “porta aperta” inaugurata nel 1979 da Deng Xiaoping, artefice delle relazioni diplomatiche con Washington.
Altro che “padrone del nuovo ordine mondiale”: per il giornalista economico, il futuro della Cina è “oscuro, quello di un Paese isolato, che invecchia ad una grande velocità, una specie di Giappone dittatoriale”.
Di conseguenza si sta chiudendo il ciclo geopolitico della “Cina America” e delle sue illusioni, inaugurato 10 anni fa, per lasciare posto a quello della “Cina Russia”, nel quale i grandi gruppi internazionali – da Total Energies a Mercedes passando per l’Oréal e Airbus – dovrebbero essere maggiormente attenti per evitare in futuro di essere sottoposti a pressioni politiche per lasciare Pechino, ad esempio in caso di invasione di Taiwan, come sta succedendo ora in Russia.