AGI - Il Corno d’Africa sta vivendo una delle peggiori siccità degli ultimi decenni. Tutti gli stati ne sono coinvolti, Somalia, Gibuti, Etiopia e Kenya. Il programma alimentare mondiale stima che in questi paesi siano a rischio 13 milioni di persone per effetto dell’insicurezza alimentare, tra questi ci sono 5,5 milioni di bambini che sono affetti da malnutrizione acuta.
La siccità ha provocato la perdita del 70% dei raccolti, la moria di bestiame, che sono la principale fonte di sostentamento delle famiglie. Questa regione, negli ultimi anni, non ha avuto pace.
Ora la siccità, ma nel 2029 ha dovuto affrontare le conseguenze delle inondazioni, poi l’invasione delle locuste, una vera calamità naturale e, non ultimi, i conflitti in Somalia e in Etiopia. Insomma, un mix letale fatto di cambiamenti climatici, covid, conflitti. Tre fattori che restano le principali cause della fame nel mondo.
A sorprendere, però, c’è un piccolo Stato, anch’esso colpito da questo mix letale, che è Gibuti. Uno stato, di per sé, insignificante, non fosse per la sua posizione strategica sullo Stretto di Bab El Mandeb, un braccio di mare largo 25 chilometri che separa la penisola arabica dal Corno d’Africa e che porta al Canale di Suez, attraverso il quale transita un terzo del traffico marittimo mondiale e dove albergano gli eserciti di mezzo mondo.
Un paese di poco meno di un milione di abitanti e con la più vasta densità di basi militari. Un concentrato di geopolitica, un microcosmo del nuovo ordine mondiale. Eppure la popolazione subisce gli stessi effetti del mix fatale che colpisce gli stati vicini. Perché mai? È una domanda legittima vista la quantità di militari che vivono in quel fazzoletto di deserto.
Gibuti è uno stato 13 volte più piccolo dell’Italia, con 974mila abitanti – 560mila dei quali vive nella capitale, Gibuti – con un indice di sviluppo umano dello 0,476 nella classifica mondiale si assesta al 172esimo posto. Molto in basso. Su questo fazzoletto di deserto sono presenti migliaia di soldati. Basi militari di Italia, Cina, Francia, Stati Uniti, Giappone, Arabia Saudita. Manca solo la Russia, ma questa sta predisponendo, più a nord in Sudan, la sua base militare.
Migliaia di militari che debbono essere sfamati e abbeverati. Insomma, non possono sopravvivere, devono vivere. È del tutto plausibile che cibo e acqua arrivino dall’estero. Nulla o poco, però, arriva alla popolazione del luogo se è vero come è vero, che le Nazioni Unite, hanno invitato la comunità internazionale a prendere provvedimenti immediati per affrontare la crisi climatica che affligge Gibuti, dove un abitante su tre è a rischio insicurezza alimentare.
Diverse e vaste aeree del paese africano sono esposte a condizioni metereologiche estreme, che incidono sulla disponibilità di acqua e sulle condizioni igieniche, aumentando il rischio epidemie. Unito agli alti livelli di povertà e disoccupazione, questo comporta un livello cronico di insicurezza alimentare. L’allarme dell’Onu è più che legittimo, il governo di Gibuti si impegna per mitigare gli effetti del mix letale.
Ma rimane la domanda: perché le autorità di Gibuti non hanno mai pensato di invitare tutte le potenze straniere che affollano lo stato ad aiutare in maniera fattiva la popolazione? Non sarebbe una richiesta così irrispettosa. Tanto più che quando si fa appello alla comunità internazionale – appare sempre come un’entità distante – questa, a Gibuti, è presente e prossima. Non deve fare molta strada, è già lì.
Evidentemente gli interessi strategici lo impediscono. Il cibo arriva per sfamare le truppe, ma questo non può essere dato alla popolazione, perché i protocolli lo impediscono. Gibuti, è inutile dirlo, potrebbe essere uno Stato dove vivere non dovrebbe essere così difficile. E invece, per la popolazione non è così. Qui le diseguaglianze sono davvero abissali e stridono ancora di più vista la massiccia presenza straniera.
Con la loro base – non si conosce il numero degli effettivi presenti – i cinesi controllano le linee di comunicazione con il mercato europeo, diventato ancor più strategico dopo il lancio della nuova via della seta. Ma non solo. Il greggio sotto il loro controllo di origine sudanese e nordafricana, passa proprio dallo stretto di Bab El Mandab.
Tra i paesi europei la presenza della Francia è di gran lunga quella più importante. Parigi è presente con le Forces Francaises stationnées a Djibouti (Ffdj), oltre 1400 uomini, oltre a mezzi della base aerea.
Da ricordare, inoltre, che la presenza francese a Gibuti fino alla metà degli anni Novanta del secolo scorso era composta da circa 4000 uomini con la base della Legione Straniera, Camp Lemonnier. Avamposto che ora vede la presenza degli americani (4000 uomini), con la Task Force Horn of Africa e unità di intelligence. Una base aera importante dalla quale decollano i cacciabombardieri F15E e droni Predator e Reaper, con destinazione Somali e Medio Oriente.
Dopo gli americani sono arrivati anche i giapponesi, che a Gibuti hanno costruito la prima base operativa militare all’estero dopo la Seconda guerra mondiale. Lo scopo è avere una presenza militare sulle rotte commerciali più trafficate del mondo.
Anche l’Italia ha dislocato una base di supporto interforze. Una postazione in grado di ospitare fino a 300 uomini. Le ricadute interne di tutto questo schieramento di forze, evidentemente, sono riservate a pochi, a coloro che ancora ormeggiano i loro yacht nel porto gibutino. Il mare, a detta degli esperti, è il paradiso per i subacquei, non certo per la popolazione.