AGI - È possibile cambiare il mondo all’età di cinque anni dal fondo di un pozzo di un villaggio sperduto in mezzo alle montagne? Forse sì. Almeno per qualche giorno. Lo ha fatto Rayan, il bimbo di Ighrane, nella provincia di Chefchaouen (che tutti conoscono come la città blu) nel nord del Marocco.
Fino a martedì mattina era un bimbo come tutti gli altri. Uno sconosciuto. Nel pomeriggio la tragedia lo ha portato a essere il figlio di tutti. È caduto nel pozzo di famiglia, scavato dal padre qualche anno prima, nella speranza di strappare a una terra arida l’acqua per dissetarsi dall’opprimente siccità, naturale ed economica. Quel pozzo non gli ha dato nulla e gli ha tolto tutto. Per cento ore Rayan è rimasto là, alla profondità di 32 metri, facendo sapere al mondo, con un flebile respiro, di essere vivo.
E il mondo ce l’ha messa tutta per arrivare a riabbracciarlo. Ce l’ha fatta sabato sera ma la gioia è stata incompiuta. Rayan se n’era andato. Ma nel frattempo aveva cambiato qualcosa di questo mondo e ha lasciato in eredità alcune lezioni.
La prima: l’indifferenza, grande malattia del nostro tempo, si può sconfiggere. Nel caso di Rayan nessuno è stato indifferente. Appena appurato che il piccolo era finito nel pozzo, sono accorsi gli abitanti del villaggio, a tentare con i mezzi rudimentali e l’impegno dei volontari di tirarlo fuori. Poi, subito dopo, sono stati allertati i soccorsi. Prima i gendarmi, per competenza di territorio. Questi hanno allertato gli specialisti della protezione civile e gli speleologi, arrivati da centinaia di chilometri di distanza. Hanno fatto almeno tre tentativi, ma chi si è avvicinato di più arrivato a 24 metri. Qui la cavità si restringe ancora di più, a 20 centimetri. Praticamente impenetrabile per qualsiasi adulto. Da martedì a Ighrane l’orologio ha smesso di funzionare: il tempo si misurava con i metri che mancavano per raggiungere Rayan.
Consumati i tentativi dall’alto, le autorità marocchine hanno deciso un intervento di forza e prepotenza contro la natura. Strappare in verticale, a morsi di escavatori, la montagna che custodiva il pozzo, fino ad arrivare all’altezza di Rayan e procedere con un tunnel in orizzontale per raggiungerlo. Ci sono voluti cinque giorni e cinque notti, di lavoro senza sosta per riuscirci. E ce l’hanno fatta. Sostenuti da un popolo intero e da milioni di persone che tifavano e pregavano a distanza.
L’indifferenza dei vicini del villaggio è stata vinta, quella dei soccorritori e persino quella della montagna. Ma il caso di Rayan è andato oltre. Per una volta le persone, di ogni dove, hanno smesso di essere distratte da se stesse e si sono interessate all’altro, dall’altra parte del mondo. Si sono lasciate trascinare e coinvolgere da una piccola creatura. Per una volta, una persona che nessuno conosceva è diventata importante per tutti.
La seconda lezione: la spontaneità dell’unità. Rayan ha stretto in un forte abbraccio popoli e nazioni con una straordinaria immediatezza. Il Marocco usciva da una stagione calcistica molto tesa, fatta di sconfitte brucianti. Prima nella Coppa Araba contro l’Algeria, un vicino a dir poco ostile, e dopo in Coppa d’Africa con l’Egitto, rivale endemico. Nulla di bellico ma malumori sociali che spesso fanno miccia per atrocità di cui solo l’uomo è capace. Sono bastate poche ore perché algerini, egiziani (e insieme a loro milioni di altre persone da ogni angolo della terra) inondassero i social di sostegno per Rayan. Perché alla fine non c’è bandiera o nazionalismo che tenga davanti al respiro affannato di un bimbo di cinque anni che lotta per la vita. Nessuna separazione tra Maghreb e Mashreq, tra Africa ed Europa; tra Oriente e Occidente.
Rayan ha spazzato via anche tante barriere interne al Marocco. Il Rif è una terra complicata, di gente orgogliosa, che ha sempre faticato a sentirsi dipendente da qualcuno. Eppure per cinque giorni il Rif è diventato cuore e anima del Marocco. Migliaia di persone sono piombate su quelle montagne da tutte le città del Regno. Il messaggio è uno: “Rayan è figlio vostro ma anche nostro. Siamo qui con voi, per lui. E resteremo fino alla fine”. E allora le donne del villaggio si sono messe a cucinare per tutti: soccorritori, giornalisti, stranieri.
L’angustia della terra che aveva ingoiato Rayan è stata vinta dalla sterminata apertura verso l’altro. Quello del Marocco si è scoperto un popolo unito, solido. Al punto che la tragica notizia della morte di Rayan è stata comunicata con le parole del Re. Perché, forse, solo le sue avrebbero lenito il dolore e il senso di impotenza.
La terza lezione. La sacralità della vita. In un mondo di guerre, tragedie e ingiustizie, le persone sembrano aver riscoperto il valore della vita e il dolore della perdita. Indipendentemente dai contorni dei fatti. È riemerso il desiderio di lottare per i milioni di Rayan nel mondo. Perché non muoiano più in fondo alla terra o in fondo al mare. Né sotto la macerie delle bombe o di stenti sotto le tende dei campi profughi.
La quarta lezione. L’ingratitudine morale di un benessere materiale ormai scontato. Tra le poche parole pronunciate dalla mamma di Rayan in queste giorni, quelle che più mi hanno colpito non riguardavano il bimbo. “Non abbiamo nulla, dobbiamo elemosinare pure l’acqua. Nemmeno da quel pozzo che vedete, che mi ha portato via mio figlio, non ho mai avuto un bicchiere d’acqua”.
Ecco, l’acqua che noi diamo per scontata non lo è per tutti. E non lo è per gente non così lontana da noi. Ighrane è a cento chilometri a Chefchaouen, dove tanti sono stati. Ma nessuno forse ha mai pensato che ci sono persone che lottano, e bambini che muoiono, per l’acqua. Alla famiglia di Rayan, che nelle prossime ore saranno ricevute dal re, non mancherà più nulla nella vita. Ma nel mondo sono milioni i Rayan che hanno ancora bisogno della nostra attenzione.