AGI - In Francia, a meno di 100 giorni dalle elezioni presidenziali, la grave situazione politica e di insicurezza in Mali rappresenta una spina nel fianco del presidente uscente Emmanuel Macron nonché una sfida imprescindibile per il prossimo titolare dell’Eliseo.
Nelle ultime ore sono gli Stati dell'Africa occidentale (Cedeao/Ecowas) riuniti a Accra ad aver sanzionato il Mali, decidendo di mettere il Paese sotto embargo e di chiudere le frontiere in risposta alla giunta militare di Bamako che ha riaffermato l'intenzione di restare al potere, rinviando le consultazioni elettorali.
Sul Mali, al momento Parigi sembra invece aver tirato i remi in barca. Anche se la questione è scottante, le emergenze sono altre, a cominciare dalla nuova ondata di Covid trainata dalla variante Omicron.
È stata proprio la forte ripresa dei contagi a fornire un solido alibi all’Eliseo per cancellare la visita ufficiale del presidente Emmanuel Macron a Bamako, prevista per lo scorso 20-21 dicembre, occasione mancata per un colloquio con il leader della giunta militare, il colonnello Assimi Goita, e per festeggiare il Natale con i militari francesi dispiegati nel Paese del Sahel.
Il viaggio è stato annullato a causa della pandemia, con la presidenza francese decisa a dare il ‘buon esempio’ in termini di limitazione dei viaggi e del numero dei partecipanti ai cenoni di festa.
Come scrive il quotidiano Le Monde, anche il “rischio politico di un tete a tete con un dirigente non eletto ha pesato sul piatto della bilancia” per cancellare la visita ufficiale, evitando così al presidente Macron un appuntamento diplomatico particolarmente “pericoloso”.
Per giunta solitamente le campagne elettorali per le presidenziali non rappresentano un momento propizio per prendere decisioni nette, anche il Mali non fa eccezione alla regola. Tuttavia, secondo diversi analisti neanche una posizione di status quo su una situazione così grave e volatile per il Paese africano e l’intera regione del Sahel appare una buona opzione per Parigi.
Anche se il viaggio di Macron in Mali è saltato, l’impasse rimane a più livelli. Tanto per cominciare, le relazioni tra Parigi e Bamako sono sempre più tese da quando nell'agosto 2020 il colonnello golpista Goita e i suoi uomini hanno preso il potere in Mali, ipotecando il corso della transizione politica verso un potere democratico.
Tensioni che si sono riaccese più volte negli ultimi mesi, come quando in diverse sedi e occasioni il presidente francese ha messo in discussione la credibilità del nuovo governo maliano e ha fatto pressioni per evitare che Bamako abbia ricorso a paramilitari della società russa Wagner nella lotta al terrorismo.
Una prospettiva, quella dell’operatività di paramilitari, apertamente condannata dall’Unione europea e da altri partner della Francia. La polemica ormai internazionale è tuttavia collegata alla questione centrale della presenza militare francese in Mali e del bilancio poco convincente dei 9 anni del suo intervento, prima con l’operazione Serval, decisa dall’ex presidente socialista François Hollande all’inizio del 2013, diventata Barkhane l’anno seguente, con un mandato esteso ai Paesi vicini ( G5 Sahel con Ciad, Niger, Burkina Faso e Mauritania).
Un intervento militare francese nel cuore del Sahel lasciato in eredità a Macron, che è riuscito a coinvolgere gli Stati della regione e ad integrare i soldati di altri Paesi europei (task force Takuba).
Lo scorso giugno ha preso il via il ritiro parziale delle truppe francesi: le basi di Kidal, Tessalit e Timbuctu sono state finalmente consegnate all’esercito maliano a metà dicembre mentre i militari di Parigi sono ancora presenti al centro del Mali.
Il disimpegno delle truppe che da oltre 8 anni erano sulla linea di fronte nella lotta al jihadismo nel Nord Paese del Sahel non è, però, il punto di arrivo di una missione militare di successo. Al contrario il bilancio è inconcludente a diversi livelli, mentre per il potere di transizione a Bamako la conclusione di Barkhane viene considerata come un “abbandono in pieno volo”.
Il doppio obiettivo della missione militare francese in Mali, su richiesta dell’allora governo di Ibrahim Boubacar Keita (Ibk), era di impedire ai jihadisti di prendere il potere ed evitare il crollo dello Stato.
Quasi nove anni dopo, anche se Bamako non è caduta nelle mani degli estremisti islamici e diversi capi terroristi son stati uccisi, la situazione è delle più critiche: l’esercito maliano ha destituito il presidente eletto, lo Stato è molto debole e i gruppi jihadisti hanno esteso la loro influenza nella boscaglia del Sahel, insediandosi solidamente anche nei vicini Niger e Burkina Faso.
Di fatto popolazione ed esperti hanno espresso il timore che l’uscita di scena delle truppe francesi a Timbuctu, Kidal e Tessalit, possa causare uno scenario catastrofico, alla stregua di quanto accaduto in Afghanistan dopo il ritiro dei soldati americani. In particolare circolano dubbi sulla reale capacità dell’esercito maliano a garantire lo stesso livello di protezione ai civili.
Ma Parigi, che affronta una crescente ostilità nella regione e una forte criticità tra le popolazioni, ha comunque deciso di ridurre il suo impegno nel Sahel, da 5.100 uomini a 3.000 nella regione, all’alba del 2022.
Per il quotidiano Le Monde, in qualche modo in Mali la Francia si trova in una situazione paragonabile a quella degli Stati Uniti in Afghanistan, ovvero un’impasse. Un ritiro troppo rapido rischierebbe di trascinare nell’oscurantismo un Paese storicamente noto per la tolleranza del suo islam e per i suoi legami con la Francia, lasciando il posto a forze ostili a Parigi, quindi vanificando l’operato di una lunga missione militare.
Ma è altrettanto vero che in Mali non pare esserci una possibile vittoria militare: l’unica soluzione arriverebbe dalla costruzione di uno Stato più solido e democratico in grado di realizzare un arbitrato serio in materia di conflitti sociali, etnici e fondiari oltre a garantire alle popolazioni sicurezza e un minimo di benessere.
Una soluzione al momento molto complessa da raggiungere anche per il doppio linguaggio del governo che da un lato promette di organizzare elezioni democratiche, pur rinviando la scadenza, e dall’altro fa affidamento ai paramilitari russi del gruppo Wagner per garantire la sicurezza e mantenersi al potere a qualunque costo.
Oltre all’elezione di un governo maliano legittimo, la strada da percorrere verso una stabilizzazione politica del Mali dovrebbe anche comprendere l’avvio di un dialogo con il Gruppo di sostegno dell’islam e dei musulmani (Gsim, affiliato a Al Qaida), il gruppo jihadista maggiormente impiantato nel Paese.
Anche in questa prospettiva serve il beneplacito e il sostegno di Parigi. I tempi appaiono ancora lunghi, motivo per cui uscire dall’impasse nel Sahel sarà indubbiamente una priorità del prossimo presidente francese.