(AGI) - Mentre i talebani completano il loro governo ‘ad interim’, senza includere nemmeno una donna, e di fatto subordinano il rispetto dei diritti umani al loro riconoscimento come nuove autorità dell’Afghanistan, la figlia dell’ex presidente socialista Mohammad Najibullah, ucciso dai talebani nel 1996 nel primo atto simbolico degli studenti coranici a Kabul, lancia un monito alla comunità internazionale.
“Non bisogna riconoscere il cosiddetto governo provvisorio, che è solo un modo pericoloso dei talebani di rafforzare la loro presa del potere e alienare altri gruppi politici”, avverte Heela Najibullah, in un’intervista scritta all’AGI, “un modo per farla franca con omicidi, torture, ingiustizie, povertà e menzogne sotto il nome di un esecutivo di transizione. I talebani non sono inclusivi nemmeno al loro interno, potrebbero mai esserlo nei confronti di voci moderate?”. Il rischio, prosegue, è che se anche la resistenza continua a portare avanti un approccio basato sull’etnia, "davanti ci si aprirà la strada della guerra civile".
Il padre ucciso nel quartier generale Onu
Heela Najibullah ha 10 anni quando il padre, ex capo della famigerata polizia segreta afghana, sale al potere nel 1986. Mohammad Najibullah rimane leader dell’Afghanistan fino al 1992, quando lascia la presidenza mentre i guerriglieri mujaheddin sono ormai alle porte di Kabul dopo anni di guerra contro il governo comunista, appoggiato dall'Urss. Dopo un tentativo di fuga all'estero, Najibullah ripara al quartier generale dell’Onu, dove vive per quattro anni e mezzo finché, nel 1996, i talebani lo uccidono brutalmente appena conquistato il controllo della capitale. La famiglia, compresa Heela - che ora vive in Svizzera, dove è ricercatrice e si occupa di risoluzione dei conflitti e integrazione - aveva già lasciato l’Afghanistan nel 1991.
Le critiche all'accordo degli Usa coi talebani
“Da tempo sogno di tornare nel mio Paese, ma più il tempo passa più questo sogno si allontana”, confessa Najibullah, che ha anche un decennio di esperienza come operatore umanitario con la Federazione internazionale delle Società della Croce Rossa e della Mezzaluna Rossa, in particolare sulle questione dei migranti. Quando le si chiede che effetto fa vedere tornare al potere i responsabili dell’uccisione del padre, allora neppure 50enne, Najibullah critica fortemente l’approccio “non inclusivo” degli Usa al dossier afghano - “gli accordi di Doha negoziati dall’amministrazione Trump con i talebani avevano come principale obiettivo non la pace, ma il ritiro delle truppe americane” - e punta il dito contro la comunità internazionale, a suo dire, inerte di fronte alla complicità del Pakistan.
“I talebani non sono saliti al potere, li hanno messi lì”, denuncia, "sono un’entità frammentata e debole e senza il sostegno di Islamabad, che li ha ospitati, non sarebbero mai sopravvissuti come gruppo di miliziani; il loro ingresso a Kabul è stato reso possibile dal processo di pace facilitato dal rappresentante speciale degli Stati Uniti, Zalmay Khalilzad, che ha negoziato per porre fine allo stallo tra Stati Uniti e talebani (ma meglio dire, tra Stati Uniti e Pakistan) nella guerra al terrore e dare loro legittimità al livello internazionale, screditando la società civile afgana, i gruppi di donne, le vittime della guerra e isolando l’allora governo afghano dal processo decisionale e dai negoziati. La domanda è se gli Stati Uniti e i loro alleati della Nato conoscessero il ruolo doppiogiochista del Pakistan negli ultimi 20 anni di guerra al terrore e se sì, cosa hanno fatto a riguardo?”.
Secondo la ricercatrice, “il pasticcio in cui ci troviamo ora è frutto di un fallimento collettivo di cui nessuno si vuole prendere la responsabilità e del calcolo errato di quale tipo di pace fosse necessaria all’Afghanistan per la sicurezza globale”.
La resistenza è debole, senza appoggio internazionale
Najibullah non risparmia critiche anche alla resistenza arroccatasi nella Valle del Panshir sotto la guida del figlio del leggendario Ahmad Shah Massoud. “La resistenza è debole, senza un reale appoggio internazionale”, spiega, “il rischio che vedo, da afghana, è che la narrativa che sta prendendo forma è quella di mujaheddin contro talebani/pashtun, a loro volta contro il resto dei gruppi etnici del Paese. Se la resistenza continua a combattere sulla base dell’appartenenza etnica o politica, come fecero gli ex mujaheddin, temo che davanti a noi si apra la strada della guerra civile”.
Ciò di cui l'Afghanistan ha bisogno, suggerisce la ricercatrice, “è uno status neutrale garantito dall’Onu, che non permetta agli attori coinvolti su questo scacchiere di usarlo come pedina, quello di cui ha bisogno è l’ascesa di leader nazionali che salvaguardino l'identità nazionale, lontano da divisioni etniche e da termini dettati dall'esterno. La domanda ora è quale leader sia in grado di farlo”.
I progressi degli ultimi 20 anni non possono essere cancellati
Sul futuro del suo Paese, Najibullah è convinta che quanto ottenuto in questi 20 anni nella società, in termini di consapevolezza e libertà, "non può essere cancellato”, ma il problema è che ora “le persone con idee progressiste sono perseguitate dai talebani. Molti afghani hanno lasciato il Paese e, sotto un governo draconiano, resta da vedere se la popolazione, storicamente musulmana moderata, rimarrà unita e si ribellerà contro i talebani o se sopporterà il loro governo per sopravvivere”.
“Quello che la comunità internazionale può fare ora è assicurare aiuti umanitari agli afghani, ma mai riconoscere i talebani; se lo farà, vorrà dire che quanto predica su democrazia, diritti umani, emancipazione delle donne è solo falsità”.
Najibullah è in contatto con diversi connazionali in patria, che raccontano di una situazione “disastrosa in termini di sicurezza per le voci moderate e inclusive; si dà la caccia a ex piloti dell’esercito ed ex funzionari dell’ex governo; l'economia è crollata, la gente non ha niente da mangiare”. Ma sono le donne a pagare il prezzo maggiore, conclude: “non hanno il permesso di lavorare, le ragazze non possono ricevere un'istruzione superiore. Su Twitter i talebani scrivono che le afghane sono come cioccolatini che attirano mosche e api, quindi devono essere coperte e chiuse in un luogo sicuro. Ci sono molte vedove di soldati che non possono sfamare i proprio figli, perché non possono guadagnarsi da vivere lavorando. Un afghano mi ha scritto che a Kabul c’è silenzio e pace, come in un cimitero”.