AGI – Alla fine si è arreso, forse più per la vecchiaia che non per i tempi; perché le stagioni e le durezze rendono più coriacei ma alla fine indeboliscono e allora anche lui alla fine, con onore e con amore, si è arreso. E così lascia Kabul anche il suo ultimo ebreo; una volta erano anche quarantamila. Un millennio e mezzo di storia, quindici secoli, chiudono insieme alla sua sinagoga: poco più giovane di San Pietro a Roma, molto più anziana di San Paolo a Londra, per non dire di quel monumento al dio d’America che è la National Cathedral di Washington.
Un gruppo di uomini d’affari americani di origine ebraica, esperti nel campo della Sicurezza (e non poteva essere altrimenti) hanno organizzato questa piccola Operazione Mosé ed ora Zebulon Simentov si trova – fanno sapere – “in un paese confinante”, al sicuro con altri 29 suoi vicini. Di più non si domandi.
Adesso le imposte dell’isolato dove viveva sbattono al vento, abbandonate. Fino a pochi mesi fa qualcuno, a questo punto, si sarebbe fregato le mani: il complesso – se così si può dire di quelle catapecchie aggrumate l’una accanto all’altra – e la sinagoga si trovano nel pieno centro di Kabul, sua via dei Fiori. Finché c’erano gli americani, carne da vampiri della speculazione edilizia.
Ma oggi, con i talebani tornati a dettar legge, è difficile che Mammona, il Signore del Mercato, possa aver la meglio sul Dio degli Eserciti: più facile immaginare un futuro di abbandono e malinconia, o qualche madrassa magari a segnare la conquista. Ad Herat, ad esempio, l’ultima sinagoga da anni è divenuta scuola. Si presume adesso a classi rigorosamente separate.
Proprio da Herat veniva Zebulon, incapace lui stesso di dare data certa della propria nascita. Pare si possa risalire con i conti al 1959, ma queste sono terre che invitano ad una dimensione interiorizzata del tempo. La data del trasferimento a Kabul invece è facile ricostruirla. Correva l’anno 1980: da un paio di mesi erano arrivati i sovietici con i loro paliot e i loro kommandisky a scandire in modo materialista e quantitativo il succedersi ineluttabile dei giorni.
Scelta controcorrente, quella di Zebulon, perché da decenni era iniziata la grande fuga dei suoi verso l’America, o verso Tel Aviv. Della comunità israelitica, che anni prima si contava a decine di migliaia di persone, erano rimasti a decine e basta, della sua stessa famiglia solo lui.
Urgeva trovar moglie.
A riprova della temerarietà del progetto, dovette andare fino in Tagikistan per darvi realizzazione. Gli sposi rientrarono in Afghanistan da quella che allora era ancora una repubblica sovietica e constatarono l’evidente, cioè che la guerra non lasciava scampo ad una vita serena. Anche lei, a un certo punto, partì per Tel Aviv, e portò con sé le due figliole. Lui rimase, il coriaceo, e da allora sono solo saltuari rapporti telefonici.
Stava iniziando la nuova vita di Zebulon Simentov, commerciante di gioielli per tradizione familiare ed ora unico custode della religione dei padri.
Il vecchio Levin
No, non unico. È vero che, con l’avvento dei talebani nel 1996, anche gli irriducibili della comunità avevano alzato bandiera bianca, stanchi di violenze e persecuzioni, ma lui non era solo: erano in due. L’altro si chiamava Isaac Levin, era più anziano e pare facesse l’artigiano. Logica avrebbe voluto che tra i due si stabilisse un sodalizio, un’amicizia indistruttibile nel nome della difesa della comune fede e dell’unica cultura.
Invece litigarono come cane e gatto.
Fu una cosa degna di Train de Vie, il conflitto tra i due. E com’è logico finì, opportunamente edulcorato di riferimenti troppo stringenti, sugli scaffali delle librerie di Francia: nel 2005 ispirò la scrittrice Amanda Sthers nel dare alle stampe il romanzo Chicken Street, storia degli ultimi due ebrei di Kabul, intenti a scoprire il senso della vita tra i reciprochi dispetti e i fucili degli studenti coranici.
Furono questi ultimi, nella realtà, che ci guadagnarono, nel senso che Zebulone e Isacco correvano a denunciarsi l’un con l’altro e i talebani, che mal li sopportavano entrambi, ora uno ora l’altro arrestavano con gran gusto, botte e maltrattamenti. Tentativi di conversioni, ora con le minacce ora con le lusinghe. Infine, lo sfregio più doloroso: la requisizione e la successiva vendita sul mercato nero internazionale dell’unico rotolo della Torah ancora esistente in Afghanistan. Un vero crimine: era una preziosa opera del Cinquecento, ma prima di ogni altra cosa era tutto quel restava di millenni di esistenza.
Sempre nel 2005 passò a miglior vita Levin, e Simentov non ebbe per lui nemmeno una parola di bontà. Nel frattempo l’Afghanistan si era anch’esso liberato, dai talebani, e lui unico occupante dell’unica sinagoga rimasto in città cercò di rimettere in piedi essa e la propria attività, perché di gioielli da commerciare non è che ve ne fossero tanti. O meglio: c’erano, ma il mercato languiva. Così decise di aprire, nello stesso stabile, un ristorante.
La decisione, come anche l’essere per l’appunto il solo pilastro dell’ebraismo per milioni di chilometri quadrati, lo spinse a chiedere una dispensa particolare al rabbino più vicino per potersi macellare da solo la carne secondo le leggi kosher. L’autorizzazione arrivò da Tashkent, in Uzbekistan.
Il rabbino di se stesso
Fu una vera e propria benedizione, se si considera che il solo momento di crisi giunse nel 2013, a seguito di una improvvida ed improvvisa riduzione delle truppe Nato e con essa di buona parte della clientela.
Comunque, da quei giorni fino ad ora la sua pratica religiosa è stata del tutto personale. In pratica, anche se la definizione non è esatta, Simentov è stato il rabbino di se stesso. Unico aiuto, in questa che fu una ricerca religiosa ben più difficile di quanto non si pensi, quello portato da una serie di testi rimasti nella cadente sinagoga di via dei Fiori. Troppo insignificanti per finire sul mercato nero.
Ed è qui che è arrivato l’ultimo e definitivo atto di disprezzo.
Il 29 agosto, ma sul giorno non c’è certezza, tornano i talebani alla sinagoga della Torah trafugata, e non trovando nient’altro da portar via tutto distruggono, tutto bruciano. Dei testi cari a Simentov non restano che coriandoli di carta, e nulla rimane degli ebrei dell’Afghanistan, che pur erano arrivati ai tempi dei Seleucidi. Anzi, di Zebulon si perdono le tracce per qualche giorno e si teme il peggio.
Poi la notizia: è vivo, in un posto sicuro. Potrebbe andare a Tel Aviv, dalle figlie. E, magari, l’anno prossimo a Gerusalemme. Che poi è quello che tutti gli ebrei si augurano, gli uni con gli altri.
Se lo saranno detto, almeno una volta, anche lui e il vecchio Isaac Levin.