AGI – L’Afghanistan talebano inizia in India, nel cuore dell’Uttar Pradesh, 150 chilometri ad est di Nuova Delhi, oltre il Pakistan e il Punjab. Però nessuno vuole riconoscere certe paternità, soprattutto ora che il governo nazionale indiano è retto da elementi molto legati al sovranismo identitario hindu, ragione per cui non si trova nessuno a Deonabd disposto ad affermare che sì, tanti anni fa, i talebani partirono di qui per arrivare a Kabul.
Per essere più precisi: partirono dalla madrassa di Darul Uloom, che ancora adesso è la principale scuola coranica delle circa 300 che operano in città, e da sole fanno seimila dei suoi abitanti. La loro presenza nelle strade, riconoscibile com’è per via dei loro abiti bianchi e delle barbe spesso lungo più di un palmo, è dominante. Vengono da tutta l’area musulmana che parte da qui e arriva in Malesia. Un terzo, se non più, di tutto il mondo islamico.
Il rettore della scuola, Arshad Madani, si è affrettato a spiegare ai media indiani preoccupati dagli sviluppi in Afghanistan, e dalle conseguenze sulla politica del Pakistan, che i rapporti tra loro e i Talebani sono solo di carattere storico. Quanto alla trasmigrazione verso Kabul, la spiega così: “Il nostro predecessore Mahmud Hassan Deobandi, un indipendentista che combatteva per l’India, mandò in Afghanistan un suo uomo di fiducia, Mahmud Ubaidullah, per creare una forza comune contro gli inglesi”.
Tutto qui. Anzi, l’accento viene posto sull’aspetto nazionale e irredentista della vicenda. Come dire: siamo indiani tra gli indiani, non ci interessa altro se non vivere secondo il Corano. Ma i critici notano come non vi sia, rispetto i nuovi signori dell’Afghanistan, nessuna presa di distanze di carattere politico, come nessun distinguo sia stato tracciato dal punto di vista teologico. Brutto segno.
Inoppugnabile è, comunque, l’origine anticolonialista del fenomeno. In effetti la madrassa dei deobandi – così si chiama fin da subito la nuova comunità religiosa – sorge molto tempo fa: nel 1867. Gli inglesi hanno appena finito di spengere gli ultimi fuochi della Grande Ribellione dell’India contro la loro Corona di Londra. IL sentimento di rivalsa, il desiderio di un’identità forte, resta invece vivo. Come anche il sentimento di repulsione per gli europei e gli occidentali.
Un desiderio, insomma, di riscoprire nella religione le proprie radici contro la cultura e la dominazione straniera, che certo in tempi di ideologia di “fardello dell’uomo bianco” non era disposta al confronto e all’incrocio tra le civiltà. Così a Deoband nasce una scuola dove si predica il ritorno all’Islam delle origini, scevro dalle contaminazioni delle numerose interpretazioni moderniste e, soprattutto, da quelle dell’induismo. Un processo molto simile a quello registrato un secolo prima (ma il tempo nell’Islam non ha la valenza che ha in Occidente) nella Penisola Arabica che abbraccia le teorie wahabite.
Come nel wahabismo, l’interpretazione coranica deve essere letterale, la sharia stabilita ai tempi del Profeta deve essere la legge e lo scopo finale deve essere il ritorno del Califfato. A mostrarsi particolarmente sensibili al messaggio, grazie probabilmente a Mahmud Ubaidullah e alla sua azione politica in Afghanistan, le tribù dell’etnia Pashtun, che all’epoca viveva da entrambi i lati della Linea Durand, il confine che la Compagnia delle Indie Orientali aveva tracciato tra la loro terra e il Pakistan.
Quando quest’ultimo venne diviso dall’India ormai indipendente da Londra, nel 1947, si assisté ad una vera e propria trasmigrazione: tra e centinaia di migliaia di persone che lasciarono la parte indù dell’ex vicereame britannico per spostarsi in quella musulmana anche moltissimi deobandi, con un effetto moltiplicatore della presenza delle loro scuole coraniche sia in quello che era il Pakistan Occidentale, sia in quello Orientale che adesso è il Bangladesh.
In vent’anni erano circa 8.000 e in più, come spesso capita con le minoranze molto agguerrite, avevano assunto un ruolo centrale occupando buona parte dei gangli della società. Ancora adesso in Pakistan sono il 20 percento della popolazione sunnita e controllano il 60 percento dell’istruzione religiosa. Il rapporto con i pashtun d’oltreconfine si fa, intanto, sempre più forte.
Quando, nel dicembre 1979, i carrarmati sovietici entrano in Afghanistan per sostenere il traballante regime di Babrak Karmal saranno migliaia gli ormai formati studenti coranici (questo vuol dire talebani) che passano il confine opposto, quello ricavato dalla Linea Durand, per combattere. Intanto continuano ad arrivare, anzi si intensificano, gli aiuti internazionali: dagli Stati Uniti, dall’Arabia Saudita wahabita. Il nemico del mio nemico è mio amico; il fratello che mi somiglia è più di un fratello. Anche quando si chiama Osama bin Laden, che pone presto la sua tenda in mezzo a loro.
Molto lo fa anche il dramma umanitario: durante l’occupazione dell’Armata Rossa sei sono i milioni di afgani che fuggono oltre confine. In osservanza dei precetti coranici, che raccomandano la protezione del povero e dello spossessato, i deobandi nella versione talebana organizzano e gestiscono una serie di campi per profughi dai due lati del confine. Al momento opportuno, quando l’Urss ormai morente decide il ritiro, fanno rientrare un fiume di persone, molte delle quali ormai convertite alla loro versione dell’Islam.
Sì, ma quale versione? Intervistata dal sito specialistico Asia News, Tasnim Butt dell’Université libre de Bruxelles, spiega che il movimento Deobandi “all’inizio sorse come movimento riformista e fondamentalista che voleva purificare l’Islam dai prestiti culturali indù”. Ma poi “con il tempo i deobandi si sono radicalizzati. Contestano quindi l’Islam popolare e sufi, e in particolare la venerazione dei santi, perché secondo loro si tratta del peccato di shirk, cioè di associare qualcuno a Dio”, continua la ricercatrice.
Per capire però i talebani bisogna considerare anche un ulteriore fattore, che questa volta, in effetti, ha meno a che fare con le origini del movimento nell’ormai lontana Deoband, in Uttar Pradesh. Dice ancora Butt: “La lettura della religione che fanno i talebani è così severa perché è legata anche alla cultura pashtun. Per i talebani le donne non hanno diritto all’eredità e non hanno bisogno di studiare. Ma questo non deriva dall’Islam, secondo cui le donne possono ereditare il 50% dei beni di famiglia, deriva dal loro essere pashtun”.
Non che la società indiana sia sempre culturalmente aperta nei confronti del ruolo della donna, ma il punto è un altro: anche l’Islam, quello letterale, qualche volta risulta male applicato da chi alla sua applicazione letterale dice di rifarsi. Mohammad Arshad Faruqi, che nella scuola Darul Uloom di Deoband cura la diffusione on line delle fatwa, i pronunciamenti, si affretta a spiegare che, secondo gli insegnamenti dell’Islam, le donne hanno diritto all’educazione e a pari opportunità nel lavoro. Ma a una condizione: devono mantenere il purdah. Che vuol dire restare totalmente coperte.
Non sono la stessa cosa, forse, deobandi e talebani. Ma il cuore dell’Afghanistan, in questo momento, batte in India.