AGI - Non solo Libia e Manica. Sono molte le acque in giro per il mondo in cui i Paesi litigano per il diritto di pesca. La crisi post Brexit nel Canale della Manica, all'isola di Jersey, ha fatto salire la tensione tra Londra e Parigi, per l'accesso dei pescatori francesi alle acque britanniche.
Nelle stesse ore, a migliaia di chilometri di distanza, si è riacceso un altro contenzioso storico nelle acque del Golfo della Sirte, al largo della costa libica: il nuovo incidente tra Guardia costiera di Tripoli e i pescherecci italiani ha anche provocato un ferito. Ma, al di là della cronaca di queste ore, quali sono gli altri teatri di dispute in acque contese per la pesca?
Norvegia (isole Svalbard)
Le isole Svalbard, arcipelago del mare glaciale Artico, parte più settentrionale della Norvegia e terre abitate più a Nord del pianeta sono storicamente contese. La principale attività economica è l'estrazione del carbone, cui si aggiungono la pesca e la caccia. La Norvegia ha dichiarato una zona di pesca esclusiva di 200 miglia nautiche, che non è riconosciuta dalla Russia, principale ‘minaccia’ alla sovranità dell’arcipelago.
L’intera area, di oltre 62 mila km2, è già stata teatro della ‘guerra’ per il merluzzo bianco. Nei mesi scorsi, come conseguenza della Brexit, trattative sono state avviate e sono tutt’ora in corso tra Norvegia, Gran Bretagna e Unione europea per una rivalutazione delle quote pesca, ovvero le quantità massime di merluzzo bianco che d’ora in poi gli Stati membri dell’Ue potranno catturare.
Mar Cinese Meridionale
Il Mar cinese meridionale è una vera ‘polveriera’, teatro storico di contese con la Cina che ha rivendicato il possesso del 90% delle sue acque, in un lungo braccio di ferro con tutti gli altri Paesi che si affacciano su quel tratto di mare: Vietnam, Malaysia, Indonesia, Brunei, Filippine, Taiwan.
Il Mar Cinese meridionale, incastonato tra questi 7 Stati, è una zona al centro dei massimi traffici marittimi del pianeta, ricca di giacimenti di gas e petrolio. Dal 2002 sono in corso trattative serrate tra la Repubblica Popolare e l’Associazione delle nazioni del Sud-Est Asiatico (Asean) per l’adozione di un codice di condotta nelle aree contese. Mentre Pechino vorrebbe un codice giuridicamente non vincolante, i membri dell’Asean sono del parere opposto.
Finora le due parti non hanno raggiunto alcun accordo sulla copertura geografica del documento da sottoscrivere, sul meccanismo di risoluzione delle dispute in caso di conflitto e nemmeno sulla scadenza entro la quale concludere i negoziati. Inoltre, una sentenza del 2016 della Corte permanente Onu di arbitrato sulla Legge del Mare ha sancito che “Pechino non ha titolo storico sulle acque di quel mare”, pertanto molte delle sue attività sono illecite.
La Cina non ha riconosciuto la decisione e ha portato avanti le sue manovre in quelle acque: nonostante le promesse di non militarizzare le isole Paracelso e Spratly, Pechino ha installato “strutture militari necessarie” sugli isolotti artificiali ricavati nel Mar Cinese Meridionale e allestito una base navale a Yulin, presso l’isola di Hainan.
Mar Cinese Orientale
Il Mar Cinese Orientale è invece conteso tra la Cina e il Giappone. Le isole Diaoyu/Senkaku, attualmente sotto il controllo amministrativo di Tokyo, sono ricche di risorse energetiche che fanno gola a Pechino, pertanto si trovano al centro di una disputa dai toni nazionalistici, come sovente accade nelle rivalità sino-giapponesi.
Pechino considera fondamentale ottenere il pieno controllo del bacino del Sud-Est Asiatico, snodo essenziale del commercio marittimo globale e perno di proiezione del suo potere militare nella zona. Del resto, dispute legate ai mari cinesi sono un tema dello scontro tra la Cina e gli Stati Uniti.
A luglio 2020 Washington ha formalizzato la sua posizione sulle rivendicazioni territoriali della Repubblica Popolare, respingendole tutte e indicando come appartenenti agli altri Paesi rivieraschi le aree contese. Con il mondo distratto dall’epidemia di coronavirus, la Cina ha intensificato le sue incursioni marittime.
Gaza
In risposta al lancio di razzi da parte palestinese dalla Striscia di Gaza, in un braccio di ferro contro Hamas, Israele ha più volte bloccato l’area di pesca nel tratto di mare antistante, quale parte di un blocco militare, terrestre e navale. Il blocco a cui viene ciclicamente sottoposta la Striscia impedisce l’accesso alla grande maggioranza, ovvero l’85%, delle aree di pesca, risorsa vitale per 1,6 mln di residenti, di cui la metà in condizioni di estrema povertà.
Eppure, in base agli accordi di pace di Oslo, firmati nel 1993, Israele è obbligato a autorizzare le attività di pesca fino a 20 miglia nautiche, ma questo punto non è mai stato attuato e nel corso degli anni le autorità israeliane hanno introdotto diverse limitazioni all’area di pesca, ridotta a sole 3 miglia.
Inoltre Israele ha sempre mantenuto una forte presenza navale in quelle acque, con forti restrizioni al traffico da e per l’enclave e ovviamente alle attività in mare, colpendo duramente 4 mila pescatori palestinesi e altre 1.500 persone impiegate in quel settore.
America del Sud
Altro mare ambito è l'Oceano Pacifico, dove Cile, Colombia, Ecuador e Perù hanno minacciato ritorsioni alle sempre più frequenti incursioni illegali delle navi cinesi nelle loro zone economiche esclusive. Il quartetto dei Paesi del Sudamerica ha più volte denunciato “la pesca illegale” ad opera di enormi flotte dalla Cina. Nel luglio 2020, l’Ecuador si è lamentato con Pechino per la presenza di 300 navi al largo delle isole Galapagos.
Quale risposta, la Cina ha vietato alle navi di pescare nelle vicinanze delle Galapagos tra settembre e novembre scorso. Le imbarcazioni dirette più a Sud, dopo aver attraversato le acque internazionali hanno ripreso a pescare nelle zone economiche esclusive di Perù e Cile, secondo quanto denunciato dall’ong Oceana, saccheggiando le acque da alcune specie di pesci.
Africa
La pesca illegale in tratti di mare e in diversi laghi è una delle piaghe del continente africano, depredato anche di questa preziosa risorsa. La situazione è il risultato di vuoti normativi, omertà politica e corruzione che vede in particolare il Mare del Golfo di Guinea, in Africa occidentale, trasformato in un vero e proprio supermercato saccheggiato dalla flotta cinese, che la fa da padrona, affiancata da quella coreana, russa, francese, spagnola, egiziana mentre quella italiana dal 2000 ad oggi si è ridotta a poche unità.
I fondali del Golfo di Guinea, in particolare nelle acque antistanti la Sierra Leone, vengono colonizzati e svuotati da pescherecci a strascico non del posto, che violano la legge e causano ingenti danni economici nonché ambientali. L’Organizzazione Onu per l’Alimentazione e l’Agricoltura (Fao) ha stimato le perdite per pescatori e popolazioni locali in oltre 2 miliardi di euro all’anno.
Un’altra area storicamente contesa per le sue risorse ittiche ma anche in idrocarburi è quella dei Grandi Laghi, teatro di conflitti per la sovranità e il controllo delle risorse tra i Paesi rivieraschi.
L’esempio più eclatante è quello del Lago Eduardo, spesso oggetto di incidenti tra autorità e pescatori della Repubblica democratica del Congo e l’Uganda, che finiscono in violenti scontri con vittime e feriti. Stesso scenario, lasciato in eredità dal periodo coloniale, sul Lago Malawi tra Malawi e Tanzania. Quanto al Lago Vittoria, la disputa verte invece sulla Migingo Island che vede contrapposte Uganda e Kenya.