C’è chi scopre il calcio in tarda età, quando la maggior parte dei suoi coetanei si sono già ritirati dalle competizioni. Anche per Boris Johnson non fu mai troppo tardi.
Era il 2006, e il calcio era ancora quello di una volta. Anche lui era ancora quello di una volta; ma con la differenza che nel frattempo il calcio è cambiato, lui no. Ad ogni modo c’era il classico dei superclassici, che Oltremanica è sempre lo stesso, cioé Inghilterra-Germania: come nel ’66, quando la Regina d’Inghilterra era Pelé.
Chisseneimporta se era una sorta di partita del cuore, ex nazionali teutonici contro politici britannici. Da quelle parti la categoria non c’entra, se di mezzo c’è la possibilità di vendicare Coventry e le V2.
Ecco allora che, all’altezza della propria metà campo, un panciuto ex teutonico prende la palla, abbozza quello che trent’anni prima sarebbe stato un accettabile dribbling e fa per avanzare sulla destra. Ma gli si para di fronte una specie di bulldog inferocito che gli parte di capoccia: spicca la corsa a testa basta e una, due, tre falcate che mordono il turf. Ma poi lo scarpino bianco si impunta.
Magari lo facesse su una zolla, ché capita anche ai migliori. La punta dello scarpino di Boris Johnson, sindaco di Londra chiamato a vestire la maglia della Nazionale perché tutti sanno già come andrà a finire, incespica invece su un filo d’erba di Wembley e lui rovinosamente finisce con la testa bionda e dura – come dire? – nella parte superiore dell’apparato di cui ogni uomo va più fiero. E lo stende secco, il povero crucco.
Non conta che fosse un Breitner o un Hansi Mueller (in realtà era Gaudino): al crucco la nostra piena solidarietà. A Johnson invece, a fine match, qualcuno dovette spiegare che certe cose si possono vedere casomai nel rugby. Ma nel football no, non vanno bene.
Lui, che è noto per capire al volo le cose, nel frattempo si era rialzato stupendosi delle acclamazioni del pubblico. E così capì al volo.
Era iniziata l’era di Boris Johnson il leader della Curva d’Inghilterra.
Ecco perché oggi, pur di fronte ad una scissione come quella della Super League che pur gli è affine nel suo etonismo edonista oxoniano ed elitario, sceglie lei, la Curva, e la guida alla riscossa nazional-popolare.
Tutte le squadre di Londra
Nobilitiamo il ragionamento e diciamo che, da grecista uso alle biblioteche di Oxford, egli prenderà sempre le parti dell’agorà e mai dell’acropoli. Tanto anche così il succo non cambia: Boris Johnson non guarda alle piccole tecnicalità che si chiamano tifo e squadra del cuore. Per lui conta solo una cosa: essere cheerleader, capo del tifo organizzato, anche solo ragazzo pon-pon. L’importante è esserci.
È talmente noncurante delle suddette tecnicalità, Johnson, che ancor oggi qualcuno si interroga per chi tifi, questo bulldog churchilliano che vuole il Regno Unito fuori dall’Europa in tutto e per tutto, fuorché nella nobile arte. Su twitter se lo stanno chiedendo a migliaia, in queste ore. Il fatto è che lui, con destrezza, dribbla la domanda meglio che fosse Gaudino: “Sostengo tutte le squadre di Londra”, ha fatto sapere. Vale a dire gli Spurs, il Chelsea, il West Ham, il Crystal Palace o l’Arsenal, per dire solo quelli della Premier League.
Quisquilie. Il premier è talmente intriso di calcitudine che è stato lui a portare alla politica britannica l’approccio della curva. Prima, sostengono i politologi, la politica nazionale si ispirava semmai al cricket, che ha una miriade di regole non scritte ma tutte rigidamente osservate. Il che poi è il segreto della stessa Costituzione britannica, basata sulle consuetudini senza che nulla sia mai stato messo nero su bianco.
Quando è arrivato Johnson a Downing Street è invece cambiato tutto, nel senso che è invalso l’uso del calcio: tutte regole scritte, quasi nessuna rispettata. Buttarsi in terra e chiedere l’ammonizione dell’avversario innocente, ecco il nuovo corso. La palla è oltre la linea? Buttala via prima che si veda il gol. L’arbitro va ingannato. Non dimenticare mai la lezione della Mano de Dios.
E poi, a guardar bene, non è che prima ci fosse tanta serietà, quando a Downing Street si parlava di calcio.
David Cameron, per dirne una, sosteneva convinto di tifare West Ham; ma poi sosteneva anche che il West Ham ha la maglia azzurra e viola (che sono i colori dell’Aston Villa). La gaffe risale all’aprile del 2015: era l’inizio della campagna referendaria che avrebbe portato alla Brexit. Se il premier era per l’Europa, non ci si stupisca che i tifosi del West Ham e del Villa abbiano votato compatti per andarsene.
Lo hanno fatto, per capirci, anche moltissimi tifosi di quella squadra ahilei perdente che è il Labour, del resto. Ed è stato proprio il Labour ad inventarsi il giochino, o meglio a far accomodare nel salotto buono il Gioco. Harold Wilson, che guidò il Partito e il Paese tra i ’60 e il ’70, si sfegatava per l’Huddersfield Town e fu lui ad applicare per primo alla politica espressioni come “scendere in campo”, poi felicemente mutuate da altri in altre latitudini più mediterranee.
Dopo Inghilterra-Germania, quella vera del ’66, ebbe il coraggio di dire che una cosa del genere poteva accadere solo sotto un governo laburista. Lo sfrontato. Eupalla, che secondo Gianni Brera era la Musa del Calcio, si vendicò come un’erinni quattro anni dopo. In Messico Gerd Mueller mise in porta pochi giorni prima delle elezioni politiche, mettendo alla porta sia l’Inghilterra che il suo governo. Wilson non mancò di notare l’accostamento.
L'insostenibile leggerezza della caccia alla volpe
Tony Blair si mosse diversamente: con una mano apriva “ai ceti produttivi” (leggi: i ricchi post-tatcheriani), con l’altra si diceva “ossessionato” da uno sport che fino ad allora era appannaggio quasi esclusivo della working class e della sua febbre a 90°. Non dando ad essa le soddisfazioni contrattuali che si aspettava, le dette più football, pompandone l’offerta a suon di satelliti e canali televisivi dedicati.
Cool Britannia: le masse ci mettono l’audience, gli editori amici i microfoni e i lustrini. Fu così, a guardar bene, che partì quel lungo processo che, oggi, conduce Johnson a stravincere le elezioni nel nome della Brexit ma anche a bloccare ogni tentativo secessionista dei club ricconi.
È la soluzione di un mistero che è solo apparente: alla radice di tutto, in fondo, c’è solo una testata tirata nel basso ventre ad un nemico storico quanto inventato. Povero Gaudino, pagasti per colpe non tue. Chi ti colpì si rialzò pronto a chiederti scusa; solo che rialzandosi percepì il giubilo degli spalti e si accorse che era cambiato tutto, perché nulla era cambiato. Dacché non c’è niente di più fieramente atavico, per un tifoso inglese, di una bella testata in pancia a un crucco. Vagli a togliere il piacere nel nome del business, se hai coraggio.
Se invece sei come Cameron, allora di gaffe ne fai anche un’altra. Come quando disse alla Camera dei Comuni – era il 2001 e la caccia alla volpe stava per essere abolita con suo grande scorno – disse alla Camera dei Comuni per l’appunto che “chi in quest’Aula afferma certe cose o è un avvocato, o è un tifoso di football; ed io non sono né l’una cosa né l’altra”.
Poi vatti a domandare perché perse il referendum sulla Brexit.