AGI - “Le primavere arabe? Purtroppo sono un capitolo chiuso. Purtroppo. Ovunque hanno prevalso le contraddizioni interne: prendiamo l’Egitto, dove Morsi è arrivato al potere democraticamente, con elezioni regolari, ma poi ha preteso di prenderselo tutto”. Adesso, afferma Alessandro Minuto-Rizzo, è il momento di dare nuovo impulso alla stabilità della regione mediterranea, facilitando lo sviluppo economico e l’affermazione di una classe media che rafforzi il quadro politico impedendo pericolose fughe in avanti. Ma l’iniziativa più coraggiosa, precisa, deve venire dalla Sponda Nord.
Presidente della Nato Defense College Foundation, Minuto-Rizzo sa cosa sia l’Europa, cosa sia il Mediterraneo e cosa sia la collaborazione euro-atlantica. E’ stato capo dell’ufficio relazioni esterne di quella che una volta era la Comunità Economica Europea ed oggi, dopo una lenta trasformazione, è un’Unione Europea alle prese con vaccini e contraddizioni, ma comunque un esempio di successo non solo politico. E’ stato consigliere diplomatico di Beniamino Andreatta, Carlo Scognamiglio e Sergio Mattarella al ministero della difesa. Fino al 2007 ha ricoperto l’incarico di vicesegretario generale della Nato. Il quadro delle relazioni euro-atlantiche lo conosce fino in fondo, e dice: “Dobbiamo essere noi a fare le mosse strategiche, senza scadere in atteggiamenti neocoloniali”.
Anche per questo ha organizzato con il Nato Defense College due giorni di riflessione che, a Roma e in streaming, hanno messo insieme il mondo accademico, quello politico e quello imprenditoriale del Mediterraneo occidentale. Tema centrale: l’energia. Ma siccome tutto si tiene e tutto è connesso, le sue valutazioni sono di respiro più ampio.
"Le borghesie arabe non hanno saputo evolversi, la politica si è trasformata in una occupazione del potere”, quasi sospira, “il processo di ammodernamento economico, politico e culturale, procede ma a tappe troppo lente. Un peccato perché parliamo di centinaia di milioni di persone, con una ricca e intensa umanità, una storia antica e preziosa. Sono convinto che meritino di essere aiutati tendendo loro una mano amichevole per accompagnarli".
Eppure le attese erano ben altre, almeno in Europa. L’idea era quella di poter costruire una sorta di unità di tutti i popoli rivieraschi.
Liberiamoci subito di un luogo comune. Il Mediterraneo è una narrativa incompleta, dal punto di vista storico e letterario. La realtà è che la sua storia non è di integrazione, ma di divisione e differenziazione. Più Pirenne che Braudel. La scoperta di una possibile concordia e collaborazione è solo qualcosa di recente. Soprattutto, la collaborazione non è completa ma largamente imperfetta.
Chi si deve assumere la responsabilità di riprendere in mano il gioco, soprattutto ora che si può pensare alla fine della paralisi dettata dal coronavirus?
Ci sono in effetti molte forze che stanno tentando di rilanciare una politica di rafforzamento dei legami, e queste forze vengono dal Nord. La triste verità è che i nostri partner arabi sono dominati da un’idea direi individualista del proprio ruolo, e del ruolo di ognuno all’interno del proprio paese. Risultato: l’Unione Magrebina, per dirne una, non è certo un’unione. Infatti il confine tra Marocco ed Algeria, che dovrebbe esserne uno dei cuori pulsanti, è chiuso. Sigillato. Sarebbero auspicabili forme e accordi di cooperazione regionale, e invece il mondo arabo resta frammentato.
Per noi, che siamo europei affacciati sul Mediterraneo, non è una prospettiva rassicurante.
E invece abbiamo tutto l’interesse a far sì che si creino interconnessione economica, sviluppo e stabilità. Certo, è anche un ragionamento di convenienza: non nascondiamocelo. Pensi solo a quello che potrebbe significare uno scenario di collaborazione, di pace e sviluppo, nella gestione dei fenomeni migratori e nella lotta al terrorismo.
Forse un po’ di scetticismo è spiegabile, se si guarda al passato.
L’Unione Europea, quando ancora era Cee, iniziò con il varo di programmi di sviluppo che non ebbero, però, il successo che avrebbero meritato. Era la politica dell’assegno staccato, con i nostri interlocutori che ci chiedevano fondi per infrastrutture che non specificavano quali fossero, se non ex post. Noi chiedevamo invece che ci si assumessero obblighi precisi in progetti di sviluppo che fossero certi. Ora si registrano innegabili miglioramenti, rispetto ad allora, ma tutto procede troppo lentamente. Ci sarebbe bisogno di una svolta.
Invece ora è la Nato che sta registrando un nuovo interesse per l’area mediterranea, soprattutto sul versante occidentale della regione.
La Nato fu concepita come rivolta in direzione est, una vocazione rafforzatasi con l’ingresso di paesi dell’area baltica e dell’Europa Centro-orientale. Ora si guarda a sud, stanno nascendo partenariati ed un dialogo euro-mediterraneo più globale. Questo dopo il fallimento della politica seguita da alcuni paesi singoli, come la Francia, che hanno dimostrato di non saper reggere il peso di un ruolo solitario nella zona. Si stanno creando rapporti più stretti, ed è questa la strada da seguire perché il processo in corso è positivo. Ma sia chiaro: è solo l’inizio. E bisogna velocizzare. Tenendo conto di una difficoltà.
Quale?
I popoli arabi vedono ancora l’Occidente come qualcosa di ostile, o almeno come un mondo pronto ad approfittare della situazione. Bisogna contrastare questa narrativa. A questo scopo le interconnessioni in campo economico e infrastrutturale, soprattutto nel settore energetico, sono particolarmente importanti. Se si deve gestire insieme una infrastruttura come un oleodotto attraverso due sponde dello stesso mare non c’è niente da fare: alla fine si collabora e si continua a farlo. È una cosa quasi inevitabile. Quello che fanno Eni, Terna e Tap è qualcosa di fondamentale. Ma anche qui: lo sviluppo registra tempi lenti, bisogna dare un’accelerazione.
Finora abbiamo parlato di Ue e Nato. C’è un paese che era parte dell’Ue, e ora è solo parte della Nato. Non teme che la Brexit possa avere ripercussioni negative anche in questo quadro?
Innegabilmente il Regno Unito ha sempre dato una spinta verso il nord alle politiche del Continente. Ma ha anche una lunga storia ed una lunga tradizione di impegno nel Mediterraneo. Non è possibile credere che un disimpegno di Londra nei confronti dell’area meridionale sia un fatto positivo. Non si tratta solo di Gibilterra o degli interessi che sono tutt’ora mantenuti a Cipro. Si tratta di una impostazione concettuale: è comunque un pezzo di Europa che non deve girarsi dall’altra parte.
Terrorismo e migrazioni non sono elementi che rischiano di compromettere un serio impegno verso il Mediterraneo?
Naturalmente. Bisogna però che, soprattutto nel caso dell’immigrazione che è una variabile indipendente, si sappiano separare le due dimensioni. Sono binari che si possono intersecare in uno scambio, ma non necessariamente. Guardiamo il caso libico: in Italia si confonde il problema migratorio, che in Libia è indubbiamente di primaria importanza, con quello della guerra tra fazioni. Sono cose che spesso si toccano ma non si sovrappongono. In Libia dobbiamo ricostruire il paese e non solo gestire i flussi.
C’è poi da considerare se, non solo in Libia, sarà possibile costruire una cultura dello sviluppo nel medio e lungo periodo.
Questo è il motivo per cui ripeto che dobbiamo intensificare gli sforzi: finora abbiamo avuto a che fare, nei paesi arabi, con strutture amministrative modeste e non in grado di gestire la situazione. È un problema che è emerso al momento in cui si sono profilate le primavere arabe, dieci anni fa. Non c’è una borghesia che si sia rivelata essere in grado, dal punto di vista politico e amministrativo, di gestire una transizione così complessa. E le primavere arabe sono sfumate. Purtroppo.