AGI - Che cosa la strage di Khojaly rappresenti per l’Azerbaigian bastano cinque minuti nelle strade della capitale Baku per capirlo. Innumerevoli striscioni e manifesti, incorniciati da una nave insolita per una città 28 metri sotto il livello del mare, ricordano quello che per gli azeri fu “un genocidio”.
Secondo l’Azerbaigian, all’alba del 26 febbraio 1992 le vittime furono 613, di cui 83 bambini, 106 donne e più di 70 anziani, con 487 mutilati e 1275 fatti prigionieri.
Appena un mese prima era scoppiato il primo conflitto del Nagorno Karabakh. Una guerra che durò due anni e mezzo, preceduta da atti di violenza e pulizia etnica perpetrati dalle due parti in conflitto, armeni e azeri.
Khojaly era situata su una delle colline più importanti dell’area, un punto strategico per attaccare la capitale Stepanekert. Fattori che ne determinarono il destino, ponendola nel mirino di milizie armene, che con il sostegno di un battaglione russo entrarono nella cittadina di notte.
“Mio marito fu ucciso a colpi di fucile perché era nell’esercito. Mia figlia di 10 anni prima rimase ferita e poi morì, provai a proteggerla con il mio corpo ma non arrivai in tempo. Io fui portata in un punto dove avevano raccolto i sopravvissuti. Ci tolsero scarpe e vestiti e ci costrinsero a camminare verso Agdam, attraverso le colline. Era freddissimo, avevamo piedi e mani nere per il congelamento”, racconta in lacrime Meliha Aliyeva, che stringe in mano le foto dei due cari scomparsi.
La colonna di profughi finì sotto il fuoco dei cecchini armeni. Una circostanza che le autorità di Yerevan hanno giustificato affermando che disertori azeri si erano uniti ai profughi. Molti caddero prima di raggiungere Agdam, dove furono tratti in salvo da milizie di volontari azeri. Poco più di un centinaio di persone, armati di poche pistole e fucili, perché all’epoca un esercito azero vero e proprio non esisteva, il Paese era appena diventato indipendente.
“I primi giorni dopo la strage trovavamo solo cadaveri di uomini, ma dopo pochi giorni abbiamo trovato decine di cadaveri di donne e bambini. I cadaveri aumentavano con il passare dei giorni, erano congelati. Molti avevano subito mutilazioni e torture. I corpi dei militari azeri erano spesso avvolti in filo spinato. Una ragazza di 20 anni è riuscita a scappare e la abbiamo salvata mentre attraversava le colline”, dice Zahid Qarayev, 67 anni, all’epoca della guerra alla testa di un battaglione di volontari.
“Mi trovavo a Parigi quando ricevetti una telefonata. Mi dissero che qualcosa di terribile stava succedendo a Khojaly. Partii subito e giunsi ad Agdam due giorni dopo il massacro. I sopravvissuti avevano lo sguardo assente. Mi unii agli azeri per recuperare i cadaveri dei morti lungo il percorso. Ad alcuni erano stati cavati gli occhi, molti erano bruciati. Quello che è successo a Khojaly è stato un atto di pulizia etnica, ma quello che l’Armenia ha fatto in quest’area in seguito è stato un genocidio culturale”. A parlare ad Agi è Reza Deghati, fotografo azero, cittadino iraniano, ma residente in Francia.
Nonostante le foto di Deghati scattate in quei giorni fecero il giro del mondo attraverso le pagine di National Geographic, il massacro del 1992 è finito tra le “stragi dimenticate” del secolo scorso.
La Russia ha imposto un trattato lo scorso 20 novembre che ha messo fine al conflitto tra Amenia e Azerbaigian, consegnando il massacro di Khojaly alla memoria della guerra, con la speranza che il ricordo di tanta brutalità serva da monito per favorire nel Caucaso una pace che vada oltre le firme apposte da capi di Stato.