La notizia è che non ci saranno notizie. Facebook vieterà di condividere e visualizzare post di testate giornalistiche. È la risposta, dura, di Menlo Park contro il News Media and Digital Platforms Mandatory Bargaining Code: il nuovo regolamento di Canberra obbliga le piattaforme a pagare gli editori (tramite un accordo privato forfettario) per i contenuti che viaggiano sulla piattaforma.
Le conseguenze per editori e utenti
Il tema è discusso da tempo, non solo in Australia. Già ad agosto, Zuckerberg aveva indicato con chiarezza la sua linea: in caso di approvazione, si legge in un post della scorsa estate, Facebook avrebbe bloccato la condivisione perché il provvedimento “sfida la logica e danneggia la vitalità a lungo termine del settore giornalistico e dei media australiani”. Sembrava una delle tante minacce incrociate tra governi e grandi società tecnologiche, una sorta di negoziato a distanza che di solito sfocia in una mediazione. Non questa volta: la rottura (per ora) è consumata.
Il social network ha spiegato nel dettaglio le conseguenze per editori e utenti. Gli editori australiani “non possono condividere o pubblicare alcun contenuto sulle pagine Facebook”. Gli editori internazionali possono continuare a pubblicare, “ma i link e i post non saranno visualizzati o condivisi dal pubblico australiano”. Gli utenti di tutto il mondo “non possono condividere contenuti di notizie australiane”. Quelli australiani non potranno neppure visualizzarli.
Pollice verso di Facebook
Facebook critica le fondamenta della legge australiana perché, spiega la società in un post, “ignora la realtà” e “fraintende la relazione tra la nostra piattaforma e gli editori”. In sostanza, la piattaforma non accetta l'assunto che fa da pilastro alla norma: nel rapporto tra Facebook e le testate, non sarebbe il social network a guadagnarci. E, di conseguenza, non ci sarebbe necessità di un intervento che lo riequilibri. Menlo Park supporta questa tesi con parole e numeri: “Gli editori scelgono di pubblicare notizie perché Facebook consente loro di vendere più abbonamenti, aumentare il proprio pubblico e le entrate pubblicitarie”.
Nel 2020, il social afferma di aver generato 5,1 miliardi di contatti per gli editori locali, per un valore stimato di 407 milioni di dollari australiani. In direzione contraria, i benefici economici per Facebook sarebbe “minimi”: “Le notizie costituiscono meno del 4% dei contenuti che le persone vedono nel loro feed”. La società sottolinea che “il giornalismo è importante per una società democratica”, ma il messaggio è chiaro: Facebook può fare a meno delle testate, mentre le testate non possono fare a meno di Facebook.
Quanto pesa Facebook sugli editori
Ogni testata ha una composizione di traffico diversa: ci sono giornali che riescono ad attirare gli utenti dai social, altri che sanno sfruttare meglio Google. Altri ancora che contano su un più copioso flusso diretto. È comunque indubbio che Facebook rappresenti ormai un tassello importante. Ci si può fare un'idea del suo peso attraverso i dati di Parse.ly, una società che analizza il traffico dei propri clienti. Nella seconda settimana di febbraio, circa un quarto degli accessi è diretto (cioè non è passato da altri canali). Il 14,2% è arrivato dai social network. All'interno di questa quota, Facebook è dominante: genera 12 volte più traffico di Twitter.
Il 27,8% degli accessi (più di quelli diretti e quasi il doppio rispetto a quelli social) è arrivato dai motori di ricerca: Yahoo, Bing, e soprattutto Google.
Le differenze con Google
Già, Google: la società ha avuto un approccio opposto rispetto a Facebook. Ha accettato la norma australiana firmando accordi con i principali editori locali: dovrebbe pagare 30 milioni di dollari australiani l'anno, per tre anni, a Nine Entertainment. Intesa fatta anche con Seven West Media e con la News Corp. di Rupert Murdoch, che dovrebbe coprire anche le testate di altri Paesi, come il Wall Street Journal negli Stati Uniti, il Times e il Sun in Gran Bretagna.
Facebook in una direzione, Google in quella opposta. Perché? Menlo Park ha fornito la sua versione: “Le nostre piattaforme hanno rapporti profondamente diversi con le notizie. Le ricerche di Google sono intrinsecamente legate con le notizie e gli editori non forniscono volontariamente i loro contenuti”. È vero: Google rappresenta per gli editori una fetta maggiore del traffico. Ed è anche vero che indicizza gli articoli senza il consenso degli editori, mentre su Facebook i giornali hanno pagine proprie. La realtà, però, è più sfumata: gli editori – anche attraverso tecniche dedicate come la Seo – fanno a gara per essere pescati da Google; dall'altra parte, i contenuti delle testate circolano oltre e pagine ufficiali, condivisi direttamente dagli utenti.
Effetti collaterali
Difficile dire, oggi, se la rottura di Facebook sia definitiva. Anche Google, qualche settimana fa, si era mostrata critica prima di ritrattare. Il social network potrebbe fare leva sull'allarme degli editori che, davanti a un calo consistente del traffico, preferirebbero avere visibilità e (a cascata) introiti pubblicitari (pochi, maledetti e subito) anziché aprire un tavolo di negoziato al quale Facebook non pare volersi sedere.
C'è poi un tema più immediato: come sempre in caso di “ban”, la prassi è molto più complessa della teoria: come si individueranno gli editori australiani? E cosa distingue una testata giornalistica da un'altra fonte di notizie? La società guidata da Mark Zuckerberg ha spiegato che utilizzerà la tecnologia e una continua opera di revisione. Lavoro non semplice, almeno a giudicare dai primi riscontri: il New York Times ha segnalato che il blocco ha colpito non solo i giornali ma anche le pagine di alcune associazioni per la tutela dei diritti umani, di ospedali e di vigili del fuoco. Facebook ha già promesso che le pagine espressione di servizi pubblici saranno riabilitate.
Anche se fosse un disguido momentaneo, sarebbe sufficiente a innescare alcuni spunti di discussione. Primo: la responsabilità di questo intoppo è del social network che non è in grado di setacciare con precisione o di una legge che fornisce una definizione troppo ampia di “notizia”? Secondo: sembrano immuni al bando pagine che promuovono le teorie del complotto, dagli anti-vaccinisti alle frottole sul 5G.
Lo scontro tra Facebook e l'Australia potrebbe quindi avere un effetto collaterale: il bando colpirebbe le testate verificate più delle pagine disinvolte, lasciando spazio a bufale e dintorni. Su questo punto hanno premuto i vertici di Google Australia: dopo aver firmato gli accordi con gli editori, si sono detti “felici di supportare il giornalismo di qualità”. Un intervento formale, ma anche una frecciata a Mark Zuckerberg.