AGI – “Rasputin” – così lo chiamavano a Londra, fino a ieri - se n’è andato. Il più stretto consigliere del premier britannico, l’ultrà della Brexit, l’uomo chiamato a Downing Street per stravolgere le regole e rivoltare come un calzino le tradizioni politiche del Regno Unito, il suggeritore fulmicotonico alle spalle di BoJo, l’uomo della continua guerra di trincea con i media, alla fine è stato piegato da una Realpolitik segnata dal coronavirus, lasciando il “Number 10” della residenza del primo ministro con lo scatolone da licenziato in mano. Una rivoluzione nella rivoluzione, si potrebbe dire.
Quarantotto anni, già consigliere di Michael Gove dal 2007 al 2014 – anche quando Gove è stato segretario per l’Istruzione – e poi capo-stratega della campagna elettorale a favore della Brexit, Dominic Cummings in un certo senso è il simbolo di una Gran Bretagna alle prese con una profonda mutazione interiore, dalla lacerante battaglia per l’uscita del Paese dall’Unione europea alle giravolte nella gestione della pandemia.
Per essere quel che si dice un’“eminenza grigia” la sua figura è straordinariamente presente nell’immaginario collettivo britannico, tanto che Cummings – comprensi la caratteristica camicia un po’ stazzonata fuori dai pantaloni, le cuffiette dello smartphone sulle spalle e il golf tutto storto – ha finito per essere immortalato da una star mondiale come Benedict Cumberbatch nel film “Brexit – The Uncivil War”, andato in onda l’anno scorso su Channel 4 e l’americana Hbo.
Oggi c’è chi dice che le sue dimissioni fossero inevitabili, con le trattative con l’Unione europea arrivate ad uno snodo cruciale nel momento forse meno opportuno per Boris Johnson, che con l’elezione di Joe Biden alla Casa Bianca si ritrova scoperto sul “fianco americano”, con una pandemia difficile da tenere sotto controllo e un Pil in caduta libera: ma certo il premier ha faticato non poco nel difendere Cummings dopo che alcuni quotidiani sei mesi fa avevano rivelato che il consigliere capo di Downing Street a marzo aveva violato il lockdown imposto per la pandemia, raggiungendo la tenuta dei suoi genitori a Durham, dove aveva portato moglie e figlio, che avevano mostrato sintomi da Covid-19. Un vero scossone: addirittura, il sottosegretario per la Scozia, Douglas Ross aveva deciso di lasciare il proprio posto per protestare contro il mancato passo indietro del consigliere.
Originario dalla contea di Durham, nel Nord-Est dell’Inghilterra, Cummings nasce nel 1971 come figlio di un manager nel campo dell’edilizia e di una docente e vanta una laurea a Oxford in Storia antica e moderna. Uno dei suoi professori lo ha descritto al New Statesman come “una specie di Robespierre, determinato ad abbattere le cose che non funzionano”. Dopo l’università, si trasferisce nella Russia post-sovietica, lavorando per un’azienda che stava cercando di lanciare una linea aerea che collegasse la città di Samara, nel Sud della Russia, con Vienna. Un progetto che si rivelò “un insuccesso spettacolare”, come ha scritto il Financial Times.
Tornato nel Regno Unito, va detto che da questo momento in poi la sua carriera appare abbastanza coerente: dal 1999 al 2002 Cunnings è il direttore della campagna che si oppone all’ingresso della Gran Bretagna nell’euro, poi diventa il capo stratega dell’allora leader conservatore Iain Duncan Smith, per il quale intende “modernizzare” il partito (finirà che bolla Duncan Smith come un “incompetente”). Tra l’altro, è tra i fondatori del ‘think-tank’ New Frontiers Foundation, famoso per aver chiesto “la fine della Bbc nella sua forma attuale”, dato che l’emittente pubblica avrebbe dimostrato di “nemica mortale dei Tory”. Partito al quale, peraltro, Cummings non si è mai iscritto.
Assurto alle stanze del potere, amava rappresentarsi come “Westminster weirdo” (che si potrebbe tradurre con “quello strambo di Westminster”): sono innumerevoli le foto di riunioni in cui tutti portano giacca e cravatta con la sola eccezione di Cummings, in felpa e pantaloni strapazzati. Al di là della sua eredità politica (c’è chi ritiene che senza di lui oggi non avremmo la Brexit), oggi si ricordano alcune delle sue uscite più caratteristiche, come quando sul suo blog annunciò – era gennaio 2020, politicamente un’era glaciale fa – che il governo britannico intendeva assumere anche “pazzi e disadattati”, secondo lui necessari per mettere insieme una squadra adatta alle sfide che la Gran Bretagna aveva dinnanzi a sé, ossia “persone fuori dal comune, con talenti e percorsi di vita diversificati”.
Tra gli altri, il “Rasputin” della politica britannica cercava data-researcher, esperti nello sviluppo di nuovi software, “scienziati del computer”, ma ovviamente anche esperti in scienze politiche ed economiche, nonché “matematici inusuali” e, appunto, “pazzi e disadattati fuori dal comune” dotati “di capacità bizzarre”. Un’uscita perfettamente in linea con la polemica anti-establishment che era una delle caratteristiche più visibili di Cummings: per mettere in atto “rapidi cambiamenti strutturali”, invece dei laureati degli atenei d’élite, Downing Street secondo lui aveva bisogno “di veri joker, di artisti, di gente che magari non ha fatto l’università ma ha combattuto la loro via d’uscita da un buco d’inferno”.
Sia chiaro, aggiungeva il “Bannon di BoJo”: se qualcuno dei prescelti non rivelasse all’altezza “sarà buttato fuori nel giro di poche settimane”. Dopodiché, Cummings è anche quello degli slogan di successo come il “take back control” che nel 2016 contribuì alla vittoria della Brexit, oppure il “Let’s get Brexit done” che portò ad una sostanziosa maggioranza dei Tory alla Camera. Ma oggi non è più la stagione d’oro dei “Brexit Boys”: il giorno prima dell’addio di Cummings, ha fatto le valigie anche il capo della comunicazione di Downing Street, Lee Cain. Un doppio addio che sancisce la fine di una stagione.
Fino all’arrivo del coronavirus la musica era tutta un’altra. Era l’epoca in cui “Rasputin” Cummings e Cain non avevano remore nell’ingaggiare una guerra di trincea con i media: clamorosa quella volta, era febbraio, quando Cain organizzò una suddivisione dei cronisti in “buoni” e “cattivi”: questi ultimi – tra cui gli inviati del Mirror, dell’Huffington Post e dell’Independent – venivano informato che non era permesso partecipare al briefing del premier. Immediata la reazione di tutti gli altri cronisti presenti: se ne andarono anche gli inviati della Bbc, dell’emittente Itv, di Sky News, del Daily Mail, del Telegraph, del Sun, del Financial Times e del Guardian. La conferenza stampa dovette essere annullata.
Il punto è che Cummings non era solo il consigliere principe: era considerato la “testa strategica” dietro BoJo, l’uomo che sussurrava all’orecchio del premier la linea della “Brexit dura”, travolgendo le “vecchie regole” nel nome di un’indipendenza “vera” dall’Ue. Nella sua visione c’era anche l’idea di portare sempre più scienziati al governo, esperti nei campi dell’intelligenza artificiale e della robotica, che secondo lui possono portare a fare scelte realmente ponderate. Anche perché, secondo lui, il “sistema” è pieno di “tecnocrati”, una macchina destinata ad attrarre “incompetenti concentrati solo sul proprio status”.
Molto temuto nelle stesse stanze del potere, con fare spiccio e ruvido Cummings aveva certamente contribuito a determinare il clima di Downing Street. Il suo addio oggi può rappresentare un cambio di toni notevole: fino a ieri figura centrale del ‘cerchio magico’ di Johnson, oggi il malumore nei suoi confronti arriva anche dalle prime file dei Tory, convinte che il governo si sia giocato buona parte del proprio capitale politico. Steve Baker, capofila del Brexiter più accesi dentro il partito, è arrivato a dirlo esplicitamente: “Non ce lo possiamo più permettere”.
Oggi qualche giornale inglese ricorda che una volta lo stratega di BoJo è stato sentito citare una frase attribuita a Lenin: “Peggio va, meglio è”. Curioso, per uno il cui soprannome è Rasputin.