AGI - I lockdown e le quarantene indette per arginare la diffusione di Covid-19 in Cina e in Europa hanno contribuito a ridurre significativamente le emissioni di CO2 dovute ai trasporti, migliorando la qualità dell’aria e scongiurando 24.200 morti che sarebbero state attribuite all’inquinamento atmosferico in Cina e 2.190 in Europa.
A darne annuncio uno studio pubblicato su The Lancet Planetary Health dagli esperti dell’Università di Notre Dame, che hanno rilevato le concentrazioni di particolato atmosferico in Cina e in Europa, scoprendo che in alcune regioni si è verificato un calo drastico.
“Alcune zone della Cina sono state caratterizzate da una riduzione davvero significativa – commenta Paola Crippa, del Dipartimento di Ingegneria Civile e Ambientale e Scienze della Terra presso l’Università di Notre Dame – pari a circa il 29,7 per cento, mentre in Europa il valore registrato è stato del 17,1 per cento in meno”.
Per quanto riguarda la Cina, il team ha considerato il periodo tra il primo febbraio e il 31 marzo, mentre in Europa il lasso di tempo analizzato copre dal 21 febbraio al 17 maggio. Gli scienziati hanno utilizzato simulazioni computerizzate avanzate basate sull’analisi dei dati di oltre 2.500 siti in Europa e in Cina durante i periodi di quarantena.
I risultati suggeriscono che nel periodo considerato sono state evitate circa 24.200 morti premature per inquinamento in Cina, rispetto ai 3.309 decessi attribuiti a COVID-19, mentre in Europa il numero di decessi sarebbe stato di circa 2.190.
“Il particolato PM2.5, che comprende particelle di diametro inferiore a due centimetri – continua l’esperta – proviene da varie fonti legate alla combustione, tra cui emissioni industriali, trasporti, incendi e reazioni chimiche degli inquinanti. Potremmo considerare i lockdown come il primo esperimento globale di scenari forzati a basse emissioni”.
La ricercatrice sostiene che questo esperimento mostra che forti miglioramenti in aree gravemente inquinate sono ottenibili anche a breve termine, se vengono attuate misure drastiche. “L’inquinamento atmosferico – afferma Crippa – è considerato la principale causa ambientale di morte. Secondo i dati dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) nel 2016 si sono verificati almeno 4,2 milioni di decessi in tutto il mondo attribuibili all’inquinamento atmosferico, e tra le regioni più colpite emergono aree nel Pacifico occidentale e nel sud-est asiatico. Cancro ai polmoni, cardiopatia ischemica, ictus e malattie polmonari ostruttive croniche sono solo alcune delle conseguenze provocate o esacerbate dall’esposizione prolungata ad agenti inquinanti”.
Il team ha stimato i tassi di morte prematura rispetto a quattro diversi scenari di ripresa economica: un rialzo dell’economia immediata, uno più graduale derivante da una ripresa delle attività proporzionali, il potenziale secondo focolaio tra ottobre e dicembre e la quarantena prolungata fino alla fine del 2020.
“La parte più sorprendente di questo lavoro è legata all'impatto sulla salute umana dei miglioramenti della qualità dell'aria – osserva la scienziata – è stato inaspettato osservare il numero di morti evitate per via del miglioramento della qualità dell’aria”.
“Il nostro lavoro – precisa – sottolinea la gravità dei problemi di inquinamento atmosferico in alcune zone. Si pensi che tra gli effetti a lungo termine abbiamo calcolato che i decessi mancati per inquinamento atmosferico sarebbero oltre 287mila in Cina e 29.500 in Europa”.
Gli autori affermano che strategie di mitigazione aggressive per ridurre l'inquinamento atmosferico potrebbero ottenere miglioramenti significativi per la salute di tutti. “Se gli interventi di scala simile a quelli adottati per affrontare la pandemia COVID-19 fossero ampiamente e sistematicamente adottati – conclude Crippa – potremmo raggiungere progressi sostanziali verso la risoluzione della crisi ambientale e sanitaria”.