AGI - Il primo Kennedy a perdere le elezioni nella storia del Massachusetts si chiama Joseph, è il terzo della serie, è rispettivamente pronipote e nipote di John Fitzgerald e Robert (Kennedy), ha 39 anni, ha perso le primarie dem per il Senato (solo il 44.4% dei voti per lui) contro l'uscente Ed Markey 74 anni, un progressista a la Bernie Sanders, un nonnetto con i razzi che ha portato a casa un 55.6% dei voti e messo fine alla dinastia politica dei Kennedy.
In questo turno elettorale finora erano stati i giovani in progress a dare le picconate ai vecchi e consolidati nomi dell'establishment democratico. Ma Kennedy per quanto esordiente è l'establishment in persona, così si sono invertiti i ruoli in una corsa che sembrava scontata e l'anno scorso era persa in partenza da Markey. Ma la vecchia volpe si è impellicciata di progressismo con il turbo, eguaglianza, riforme economiche e Green New Deal, ha ricevuto l'endorsement di Elizabeth Warren e soprattutto di Alexandria Ocasio-Cortez. Quest'ultima si sta mostrando molto abile, in silenzio sta costruendo una sua squadra per il futuro, il dopo Nancy Pelosi, altra donna democratica di grande talento ed esperienza istituzionale. L'appoggio del Sunrise Movement, di Move On e di Our Revolution. Sono tutte sigle del progressismo che battono il territorio, fanno opinione, spostano consenso.
Il crash dell'American Dream
Kennedy poteva ottenere il loro appoggio? No, perché ti chiami Kennedy. E poi Joseph era riluttante perfino a usare tutto il peso del casato, non aveva il coraggio di far brillare il nome. Sia detto, gli fa onore, affermare il se stesso presente e non l'eredità degli altri io del passato, ma sul piano politico è stato un errore, non l'unico, ma quello forse più visibile. Forse in cuor suo pensava di lasciarci le penne. E così è stato. Crash. Fine dell'American dream dei Kennedy. In verità la fiammella democratica della famiglia era spenta da un pezzo, ma le elite 'in progress' vivono sempre perpetuando i sogni pensando di farli coincidere con le fortune economiche. Qualche volta va così, spesso la Storia fa ampi giri e cambia direzione. E' successo. Tweet del Sunrise Movement, il tono è quello della caduta dell'ancien regime: "Prima di stanotte, un Kennedy non aveva mai perso un'elezione in Massachusetts. Ma anche una dinastia di 100 anni non può superare il Green New Deal".
Così, in un ribaltamento della storia, il più progressista è apparso l'altro, l'anziano Markey che rimbalza sulle sue Nike Air Revolutions (e naturalmente, voilà, ecco il pezzo con foto su Vanity Fair, che impaginato da radical chic) per gli elettori democratici è un segno premonitore di vittoria (e sconfitta).
Simboli contemporanei, miti d'oggi che non trovano la penna di un Roland Barthes, il volto di questo ragazzo che sarebbe perfetto in un testo teatrale di Tennessee Williams, una vita all'ombra di un pantheon ingombrante, aspirazioni che hanno il peso dei giganti. Probabilmente il piccolo Kennedy ci riproverà, ha dalla sua parte il tempo e il denaro, ma abbiamo visto che per diventare grandi è materia prima che non basta. Bisogna costruire una coalizione. E trovare il tocco leggero di un passo del "Summer Crossing" di Truman Capote: "Se conosciamo il passato, e viviamo il presente, è possibile che sogniamo il futuro?". L'estate quel futuro sognato l'ha spento.
'The End'
I dolori del giovane Joseph P. Kennedy III sono esposti, visibili, scarnificati: Markey era in pista al Congresso dal lontano 1976, tutto lasciava pensare che sarebbe colato a picco di fronte alla figura del giovane aitante e di cotanto blasone, invece è andata come (non) doveva andare: il primo Kennedy che in Massachusetts fa un bagno nell'acqua gelida. Congelato. Fine di una dinastia.
E poi le vittorie dei Kennedy sono ormai memoria, JFK fu ucciso nel 1963, Bob fu assassinato nel 1968, l'ultimo politico di peso della dinastia, Ted Kennedy, è scomparso 11 anni fa per un tumore, fu eletto per la prima volta al Senato all'età di 30 anni e da allora fu sempre confermato, in carica dal 1962 al 2009. Non è andata così per Joseph per la semplice ragione che non poteva andare più così, la storia ha sempre un inizio e un The End, per quella dei Kennedy erano già passati i titoli di coda, la memoria era già evaporata da un pezzo.
La trottola Trump
Mentre i dem fanno una seduta di autocoscienza (di lunghi 5 minuti) sull'affondamento della dinastia dei Kennedy, quello che sta costruendo un altro clan politico, Trump, fa la trottola. Ieri a Kenosha il presidente ha continuato il tour "law and order", contro quelli che ha chiamato "disordini anti-americani". Sostegno alla polizia e ai piccoli imprenditori colpiti dalla devastazione, dai saccheggi, dagli incendi.
"Non è certo stata una protesta pacifica, si tratta di un vero terrorismo interno", ha commentato Trump. I repubblicani hanno virato sul tema della sicurezza e della lotta alla criminalità, il tema del "defunding police" ha aperto una breccia tra gli elettori moderati e dunque "la retorica contro la polizia è pericolosa e penso che molte persone che stiano guardando a quel che succede a queste città gestite dai Democratici e sono disgustate".
Questo è il punto debole dei dem, i disordini più gravi sono nelle città che governano, Trump non fa altro che schiacciare la palla: "Tutti i problemi che abbiamo nelle città, come New York e Chicago, provengono dai democratici". Il sindaco di Kenosha? "Uno stupido", dice Trump. Terribile Donald, ma questa è la campagna presidenziale, i colpi sono tutti regolari, anche quelli proibiti e figuriamoci con una sagoma come quella di Trump.
Accompagnato dal ministro della Giustizia William Barr, Trump ha fatto il suo giro, una tavola rotonda, annunciato milioni di aiuti per Kenosha (1 milione di dollari alla polizia di Kenosha; 4 milioni di dollari per aiutare le aziende; 42 milioni di dollari per altri pubblici ministeri), elogi per l'intervento della Guardia nazionale (fatto: sono finiti gli scontri dopo l'intervento), e "questi gentiluomini hanno fatto un lavoro fantastico", rivolto alla polizia. Orrore, Trump a Kenosha. Conseguenze: anche Joe Biden andrà a Kenosha "il più presto possibile".
Le carte della comunicazione
La corsa di Trump è costellata di ostacoli, il "Financial Times" oggi scrive che la sua strategia per la rielezione ha un buco nero: il deficit commerciale con la Cina. E' vero, Trump non ne parla, perché il tema non è mai stato risolto, il negoziato sul commercio tra Washington e Pechino resta in stallo e la bilancia commerciale continua a essere in rosso: erano 347 miliardi di dollari nel 2016, sono 345 nel 2019.
Domanda: è un tema che sposta voti? Difficile pensare che l'elettore del Minnesota stia pensando ai numeri del commercio con Pechino. Trump dice che fa (male) la guerra del container, sposta l'attenzione sul "virus cinese", va alla guerra del social contro TikTok, agita la bandiera a stelle e strisce contro quella rossa di Pechino e dice che Xi Jinping non vede l'ora di avere un Biden alla Casa Bianca. Copre la carta perdente (il commercio), fa vedere quelle che può giocare facendo titolo. La politica è comunicazione.
Lo stratega John Walsh
La campagna presidenziale corre nel segno della marcatura stretta dell'avversario. Come funziona? Risponde John Walsh, lo stratega che ha costruito la vittoria di Markey contro Kennedy, intervistato da The Hill: "Inizia con il candidato migliore, invia un messaggio positivo e poi organizzati come un inferno". Markey aveva 17 punti di distacco da Kennedy nell'agosto del 2019. Poi ha vinto.
E l'impresa è riuscita in un ambiente iper-competitivo, come ricorda Walsh: "Se sei un democratico in Massachusetts, ti trovi spesso di fronte a un eccesso di talento. Nelle primarie, abbiamo impegnato un sacco di tempo per scegliere non tra il bene e il male, ma tra il bene e il meglio. E in questo caso, Joe Kennedy è dannatamente bravo, ma Ed Markey è migliore". Sembra facile, ma è un lavoraccio, il più difficile. Vincere le campagne elettorali.
L'agenda del presidente
Gli strateghi hanno un'agenda giornaliera divisa per temi: gli appunti media dell'avversario (giorno, fascia oraria, tipo di show, etc.), i dibattiti in persona con il pubblico, i comizi (e relativo formato), le sortite nei luoghi frequentati dalla gente comune. Questa agenda costituisce la base per la risposta e qui esistono un paio di opzioni tattiche: 1. Marcatura stretta; 2. Monitoraggio ma perseguimento di una propria agenda; 3.
Facciamo il contrario. La prima scelta se non è supportata da argomenti forti, documentati e ben calibrati, si traduce nel farsi dettare l'agenda dall'avversario (è quello che sta succedendo ora a Biden con Trump, il candidato dem è costretto a inseguire il presidente su un tema dove è in svantaggio, la criminalità); la seconda scelta è quella classica, provo a mettere al centro i miei argomenti, attacco i punti deboli dell'avversario; la terza è quella più creativa, visibile per i media, e naturalmente molto rischiosa, perché se l'avversario dice una cosa ragionevole, cercare l'opposto può alienare consensi.
Trump va nella direzione numero tre in un'America fatta di 'contrarian' a prescindere. I dem lo accusano di essere un presidente che divide, ma è esattamente quello che vuole Trump, non aspira a diventare il presidente degli elettori dem, porta avanti la sua agenda, a volte appare improbabile, spesso è sopra e sotto le righe, ma fa Trump che cerca di mobilitare la base, spostare gli elettori, far vacillare Biden.
Dove è finita Kamala Harris?
Ci sta riuscendo? Sì, piaccia o meno, la campagna dell'ultima settimana ha svoltato. Biden è stato costretto a inseguire il presidente su un'agenda repubblicana, ha dovuto - dopo un silenzio durato 90 giorni - condannare la violenza a Portland, ma nel farlo ha mostrato anche il suo imbarazzo, non a caso l'Editorial Board del Wall Street Journal ha scritto che Biden nella suo discorso "non è stato rassicurante" perché ha parlato delle "divisioni" provocate da Trump ma non ha mai citato il Black Lives Matter, e per questo "gli americani continuano a essere preoccupati" sulla sua tenuta di fronte alle tensioni sociali.
Domanda sul taccuino del cronista: dov'è finita Kamala Harris? Esaurita la spinta mediatica (che nei sondaggi non c'è stata) della convention democratica, la vicepresidente sembra rimasta intrappolata nel suo pur nobile discorso sulla diversità, l'inclusione, la battaglia anti-razzista. Ma questo lavoro tra i democratici lo fanno anche altri e con grande visibilità, qual è il valore aggiunto della Harris nel ticket con Biden? Non si stacca nettamente dal resto della truppa e questo potrebbe diventare a breve un altro problema.
Nancy dal parrucchiere senza mascherina
Durerà questo scenario della campagna presidenziale? Non lo sappiamo, una cosa è chiara: il coronavirus non è più il focus del dibattito e per Biden questo è un macigno. Ci sono poi i piccoli e grandi fatti che costruiscono e demoliscono il pop della campagna, dunque se attacchi Trump che non usa la mascherina (la mette a intermittenza e quando la indossa diventa "patriottica") poi finisce che il tritatutto della campagna arriva come un boomerang e così su Fox News ecco comparire le immagini di Nancy Pelosi dal parrucchiere a San Francisco senza mascherina, "non sapevo fosse che qui fosse proibito" dice Pelosi, ma nell'immaginario collettivo resta l'immagine. Anche questo fa parte della campagna presidenziale.
Territorio? Nella media nazionale nazionale di Real Clear Politics Biden è sempre in testa con 6.2 punti di vantaggio, ma sta sempre sotto il 50% (49.6 contro 43.4).
Dagli Stati giungono segnali deboli che cominciano a essere forti. North Carolina, "swing state" con 15 voti elettorali, Trump ha sorpassato Biden, è in testa di un punto nella media di Real Clear Politics (48 a 47), corsa apertissima, ma Biden il 30 luglio aveva un vantaggio di 4,7 punti.
Negli Stati in bilico il vantaggio di Biden è sempre più corto, solo 2.6 punti, troppo pochi per considerarsi in una comfort zone.
Cosa sta succedendo? Donald Rumsfeld, ex ministro della Difesa nel governo di George Bush jr, faceva coppia il vicepresidente Dick Cheney (vedere il film "Vice", leggere il libro di James Mann "Rise of the Vulcans", il dio romano del fuoco, il fabbro dei fulmini di Giove in un dipinto di Peter Paul Rubens esposto a Madrid, al museo del Prado), uno che macinava migliaia di chilometri nell'America repubblicana e poi tesseva trame a Washington DC. sfornò una frase da Settimana Enigmistica:
"Ci sono cose che sappiamo: cose che sappiamo di sapere. Ci sono cose che sappiamo di non sapere: sappiamo che non le sappiamo. E poi ci sono cose che non sappiamo di non sapere: non sappiamo che non le sappiamo".
Ecco, la campagna presidenziale è tutta così. Trump sa che sta inseguendo, sa anche che non sa se vincerà. E naturalmente non sa di non sapere qual è il suo punto debole: se stesso. Può vincere, può perdere. La prima possibilità è meno probabile della seconda, per ora. Il futuro? Sappiamo di non saperlo, per un cronista è un buon punto di partenza per scoprirlo.