La prima fu la crisi della sedia vuota. Non si discuteva di soldi, ma di politica, e nel ruolo del ‘cattivo’ non c’era un calvinista parsimonioso, ma un gigante della storia: Charles De Gaulle. Era il primo luglio del 1965 e Aldo Moro cominciava il suo semestre di presidente di turno della Comunità economica europea che sarebbe stato affondato dalla incrollabile resistenza del presidente francese nella trincea della sovranità nazionale. L’Europa era nata da soli otto anni e sul tavolo c’era la proposta della Commissione per una maggiore integrazione tra i 6 Paesi fondatori (Italia, Francia, Repubblica Federale di Germania, Belgio, Paesi Bassi e Lussemburgo).
Si trattava, oltre che della riforma della politica agricola comune, di introdurre il voto a maggioranza nel Consiglio dei ministri comunitario al posto dell’unanimità allora vigente. In altre parole, di cassare il diritto di veto di un singolo Paese per accrescere il profilo sovranazionale della CEE a scapito degli interessi nazionali. Indigeribile per De Gaulle e la sua idea di ‘grandeur’ della Francia.
Le guerra di logoramento di De Gaulle
Il generale lanciò una guerra di logoramento. Dal primo luglio del 1965, disertò le riunioni della CEE, che, con quella sedia vuota, si trovò nell’impossibilità di decidere alcunchè. Come sempre avviene, lo stallo si risolse con un compromesso, rimasto agli atti come il Compromesso di Lussemburgo e raggiunto anche grazie alla mediazione dell’Italia la cui impronta si può forse intravvedere nella furbizia diplomatica di permettere a ciascuno di proclamarsi vincitore.
Quel documento, che ebbe la veste di accordo informale tra governi e fu firmato il 29 gennaio del 1966, sancì la fine dell’unanimità ma con un correttivo che nei fatti la mantenne: a ciascuno Stato si riconobbe la facoltà di chiedere il rinvio della votazione a maggioranza ogni qual volta lo ritenesse opportuno, invocando il “pregiudizio a propri interessi importanti”. Una formula che prolungò sostanzialmente il potere di veto per oltre 20 anni, fino a quando con l’Atto unico europeo che nel 1987 modificò i trattati di Roma, il meccanismo del voto a maggioranza qualificata fu ampliato ai tre quarti delle decisioni europee. Peraltro, anche quell’Atto unico fu il risultato di un’operazione con regia italiana (il presidente di turno era l’allora ministro degli Esteri Giulio Andreotti) che portò all’approvazione della proposta franco-tedesca (Francois Mitterand e Helmut Kohl) cui si opponeva la Gran Bretagna di Margareth Thatcer, spalleggiata dalla Danimarca e dalla Grecia.
Dalla sedia vuota del 1965, sul cammino dell’Europa unita e sempre più allargata si sono presentati molti inciampi, molti tornanti in cui l’interesse nazionale dei singoli Stati membri ha deragliato dal percorso comunitario senza che fosse possibile assorbirlo con l’opting out, la clausola di esenzione che consente a un Paese di non aderire a una regola valida per tutti gli altri e che, per esempio, ha permesso alla Danimarca di restare fuori dall’Euro, all’Irlanda fuori da Schengen, alla Polonia fuori dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Ue.
Il no di Francia e Olanda alla Costituzione europea
Ma la frattura più clamorosa si materializzò proprio su quello che avrebbe dovuto essere l’atto fondativo della nuova Ue a 27, la Costituzione europea. La gestazione fu travagliata. Iniziò con il Trattato di Nizza del 2000, e passò tra il 2002 e il 2003 per la Convenzione per il futuro dell’Europa presieduta da Valery Giscard d’Estaing. I 102 delegati di quell’interminabile conclave discussero una caterva di proposte, tra le quali si ricorda il ‘Progetto Penelope’ presentato dall’allora presidente della Commissione, Romano Prodi, e licenziarono infine un testo non proprio snello: 448 articoli e 36 protocolli. La Costituzione fu firmata a Roma il 29 ottobre del 2004, nella pompa magna televisiva dell’eurovisione in diretta dal Palazzo dei Conservatori. Iniziò il processo delle ratifiche. Fulminea, la Lituania fu la prima a dire sì l’11 novembre del 2004. Seguì quello stesso anno l’Ungheria e nel 2005 a ruota la Slovenia, l’Italia, la Spagna, l’Austria, la Grecia, finchè il volo della Costituzione fu spezzato, e definitivamente, dai referendum tenuti in Francia e in Olanda, che la bocciarono sonoramente.
In Francia, il presidente Jacques Chirac avrebbe potuto optare per la ratifica parlamentare. Scelse invece la consultazione popolare, forse annusando che la complessità euroburocratica della Costituzione non entusiasmava troppo un popolo educato all’immediatezza del ‘libertè, egalitè, fraternitè’. A ogni modo, Chirac sostenne il sì. I socialisti si divisero. La linea ufficiale del segretario Francois Hollande era per il sì, ma la base non palpitava e fu Laurent Fabius, principale avversario interno di Hollande, a intestarsi nel partito la battaglia minoritaria per il no. Anche i Verdi sostennero il sì, ma non compatti. Per il no, il Partito comunista, l’estrema destra di Jean-Marie Le Pen, il composito mondo della sinistra radicale. Si votò il 29 maggio del 2005 e vinse il no con il 54,67%: oltre 2.600.000 voti più dei sì. Per inciso, l’affluenza fu altissima, il 70%, pari a quella delle presidenziali e molto superiore al 43% delle ultime elezioni europee: quando c’è da dire no, gli elettori corrono alle urne, come insegna il referendum britannico sulla Brexit che fece segnare una partecipazione del 72,2%.
In Olanda si votò due giorni dopo, il primo giugno del 2005. E il risultato francese fece da traino al no che vinse ancora più nettamente che in Francia, con il 61,5%. Anche gli olandesi affollarono i seggi, l’affluenza si attestò al 63,3%. Fu una sconfitta non solo per il premier cristiano democratico Jan Peter Balkenende, ma per tutti i grandi partiti, compressi quelli d’opposizione. E una vittoria per il sovranista Pym Fortuyn, stella del fronte del no comprendente anche gli ortodossi protestanti e l’estrema sinistra.
I referendum a risultati invertiti
I due referendum colarono a picco la Costituzione europea. Il processo di ratifica si interruppe bruscamente, e i Paesi che avevano a loro volta convocato referendum sul nuovo trattato li annullarono: Repubblica Ceca, Danimarca, Irlanda, Polonia, Portogallo, Svezia e Gran Bretagna. Un terremoto molto più devastante della scossa che era stata causata nel 1992 dal referendum in Danimarca sul Trattato di Maastricht. I danesi lo avevano bocciato, ma il governo corse ai ripari facendosi forte anche del risicato margine con cui aveva vinto il no, appena lo 0,7%.: fu indetto l’anno un nuovo referendum che si tenne il 18 maggio del 1993. Sullo sfondo fu agitata la prospettiva di un’uscita della Danimarca dalla Comunità europea, e stavolta vinsero i sì: il Trattato di Maastrich fu approvato con il 56,8% dei voti favorevoli.
Il doppio referendum a risultati invertiti si sarebbe poi ripetuto in Irlanda anche con il Trattato di Nizza, prima bocciato dagli elettori nel 2001 e poi approvato nel 2002. E di nuovo, sempre in Irlanda, con il Trattato di Lisbona, che rappresentò la soluzione all’impasse del fallimento del progetto di Costituzione europea: gli irlandesi lo respinsero il 12 giugno del 2008 ma quando furono nuovamente chiamati a votarlo, il 2 ottobre del 2009, lo approvarono. E spianarono la strada alla nuova costruzione europea, che oggi si impantana su questioni ‘frugali’.