È stato "un massacro", attuato con ferocia. Quanto avvenuto a Mizda - in una sorta di capannone che ospita centinaia di migranti in un'area strappata dalle milizie del generale Khalifa Haftar a Tripoli, da cui dista circa 180 km - conferma che la Libia non è un luogo sicuro. I morti, secondo quanto riferito dal ministero dell'Interno del Governo di Accordo nazionale sono 30: ventisei migranti erano del Bangladesh e quattro africani. Una rivolta sarebbe stata innescata da uno sparo che ha ferito un migrante. Il gruppo ha, a sua volta, ucciso un trafficante. La vendetta, infine, sarebbe arrivata dalla milizia, ed è stata orrenda: "I corpi recano ferite inimmaginabili", hanno detto all'AGI fonti umanitarie.
Il personale medico dell'Organizzazione internazionale delle migrazioni (Oim), che ha fatto in modo che le persone che si trovavano in condizioni critiche fossero trasferite in ospedale e che stanno fornendo loro assistenza, riferisce che alcuni dei migranti portano vecchi segni di percosse e di abusi fisici. "Questo crimine insensato ci ricorda ancora una volta quali siano gli orrori che i migranti subiscono per mano dei trafficanti in Libia", ha affermato il capo della missione dell'Oim in Libia, Federico Soda. "Questi gruppi criminali approfittano dell'instabilità e della situazione di insicurezza del paese per dare la caccia e approfittarsi di persone disperate e per sfruttare le loro vulnerabilità".
L'Oim chiede a Tripoli di indagare
L'Oim chiede alle autorità libiche di avviare immediatamente un'indagine per assicurare i responsabili alla giustizia. "Mentre il conflitto continua senza interruzioni nella capitale e nelle aree circostanti - sottolinea l'organizzazione - le condizioni di vita dei civili, specialmente dei migranti e degli sfollati, si stanno rapidamente deteriorando. Molti di coloro che sono stati intercettati o soccorsi in mare quest'anno e riportati in Libia sono stati portati in centri di detenzione non ufficiali dove possono facilmente cadere nelle mani dei trafficanti. L'Oim ha già denunciato in precedenza come migranti portati in queste strutture siano scomparsi e come non si possa sapere quali siano le condizioni di centinaia, se non di migliaia, di coloro che sono stati riportati a terra dalla Guardia Costiera libica".
Ad oggi, da inizio anno, sono state quasi 4.000 le persone intercettate o soccorse in mare e riportate in Libia. "I recenti e numerosi casi che hanno coinvolto imbarcazioni in difficoltà nel Mar Mediterraneo e la riluttanza dei Paesi nel fornire un porto sicuro a persone che fuggono da quello che ormai è un paese dilaniato da un conflitto - prosegue l'Oim - mostrano ancora una volta come sia necessario cambiare l’atteggiamento con cui viene affrontata la situazione libica.
Da una parte è importante che la priorità resti quella di perseguire i trafficanti, ma dall’altra è altrettanto urgente stabilire uno schema alternativo di sbarco che permetta di trovare un porto sicuro e di garantire protezione per coloro che fuggono dal conflitto e dalle violenze della Libia".
I torturatori alla sbarra
Le torture ai migranti sono documentate nel processo che a Messina ha visto condannati a 20 anni di carcere ciascuno Mohamed Condè, detto Suarez, 22 anni della Guinea; Hameda Ahmed, 26 anni, egiziana, e Mahmoud Ashuia, egiziano, 24 anni. Si tratta di 3 “torturatori” di migranti che erano stati “fermati” il 16 settembre scorso all’hotspot della città dello Stretto. Erano accusati di vari reati tra cui, associazione a delinquere, tratta, violenza sessuale, omicidio e tortura.
I tre erano stati riconosciuti da alcuni dei migranti salvati dalla nave “Alex & Co” - della Ong Mediterranea Saving Humans, - sbarcati a Lampedusa tra il 5 e il 7 luglio scorsi. Agli investigatori hanno raccontano le torture, le botte con bastoni e tubi di gomma e le violenze subite anche attraverso la privazione di cibo e acqua. “Mohamed Condè si occupava di imprigionare i migranti, di torturarli e di occuparsi dei riscatti che venivano richiesti ai familiari dei detenuti ai fini della loro liberazione, fornendo agli stessi il cellulare con cui potevano contattare i propri familiari; Hameda svolgeva il ruolo di carceriere, torturatore e di colui che si occupava di cucinare i pasti per i migranti detenuti; Ashuia – avevano raccontato i superstiti - era il carceriere e guardiano della prigione di Zawyia, nonché nelle vesti di torturatore con cui picchiava brutalmente i migranti anche servendosi di un fucile e nell’ulteriore veste di colui che distribuiva i pasti ai migranti detenuti”.
I “torturatori”, giudicati con il rito abbreviato, erano stati fermati il 16 settembre scorso all’hotspot di Messina, in seguito al fermo emesso dalla Direzione distrettuale antimafia di Palermo firmato dall’aggiunto Marzia Sabella, dal sostituto della Dda Calogero Ferrara