Dalla Cina alle prese con i timori per una seconda ondata di contagi all'India che fatica a contenere la prima: nelle differenze di approccio e di gestione, i paesi del grande continente asiatico hanno però in comune qualcosa di essenziale per il futuro.
Ovvero la necessità di far fronte a una drammatica crisi economica legata alla pandemia da Covid-19. La riposta all'epidemia nell'Asia orientale è stata oggetto di un policy paper realizzato dall'institute Montaigne.
Distinguendosi per modalità di contrasto al virus e per regimi politici differenti (dall'autoritarismo alla democrazia) i Paesi dell'Asia orientale hanno registrato risultati differenti, pur mantenendosi, in gran parte, su livelli più bassi d contagi rispetto a quelli registrati in molti Paesi europei e negli Stati Uniti. Quello che emerge è l'importanza di avere un efficiente sistema di primo allarme, scrivono gli studiosi, un piano per la quarantena individuale fondato soprattutto sulla digitalizzazione, un controllo tempestivo dei confini, la mobilitazione degli impianti industriali e misure economiche mirate. Nonostante l'applicazione di molte di queste misure, per questi Paesi appare difficile uscire dalle secche dell'economia o evitare la recessione, fino a quando non verrà trovato un vaccino al coronavirus.
L'impatto sull'economia del Covid-19 costringeraà alcune delle economie più dinamiche del mondo a ripensare il futuro e ricalibrare i propri obiettivi, cosa che dovranno fare, in altri quadranti del planisfero, anche Paesi che si trovano in fasi diverse del lockdown o delle riaperture.
Cina
Attaccata da Usa e altri per la scarsa trasparenza all’inizio dell’epidemia, Pechino ha rivendicato il successo del proprio modello di contrasto al coronavirus, fondato su ferrei lockdown, a cominciare da quello imposto a Wuhan dal 23 gennaio all’8 aprile scorsi, e in seguito applicato anche in due località del nord-est, dove i contagi sono risaliti di recente. Altro tratto peculiare della risposta della Cina all’epidemia, è la massiccia riconversione di impianti industriali per la produzione di materiali sanitari (mascherine e ventilatori polmonari).
Nella fase successiva, caratterizzata dal timore di una seconda ondata di contagi, il governo punta sui test di massa per accertare i livelli di presenza del virus tra le popolazione: proprio a Wuhan si testano gli undici milioni di abitanti della città, dove sono ricomparsi nuovi casi a più di un mese dalla fine del lockdown.
La Cina non è ancora a pieno regime: la ripresa delle attività di fabbriche, uffici e scuole è stata graduale ed è tuttora in corso, per prevenire l’emergere di nuovi focolai. La pressione per ripartire, intanto, è forte, anche da parte del Politburo, il vertice del Partito Comunista Cinese.
Lo stesso presidente Xi ha fatto una serie di viaggi per segnare la fine dell’emergenza. Dopo la prima tappa, a Wuhan il 10 marzo, ha visitato altre quattro province cinesi, facendosi ritrarre senza mascherina nei luoghi aperti e con la mascherina chirurgica nei luoghi chiusi. Giovedì scorso, invece, è apparso senza mascherina ai lavori della Conferenza Consultiva Politica del Popolo Cinese, svoltisi tra rigidi controlli sanitari ai delegati giunti a Pechino da tutta la Cina: la sua immagine, a volto scoperto, nella Grande Sala del Popolo è stata la prima dall’inizio dell’epidemia in un luogo chiuso. I dati economici sono pesanti.
Nel primo trimestre 2020, il pil ha registrato una contrazione del 6,8% (-9,8% su base congiunturale), la prima da quando Pechino ha iniziato, negli anni Novanta, a rilasciare dati pubblici. I consumi interni non ripartono e il governo teme un aumento del tasso di disoccupazione nelle città, che vuole contenere al 5,5% entro fine anno. Come ha dichiarato il primo ministro Li Keqiang all’apertura dei lavori dell’Assemblea Nazionale del Popolo, la Cina va incontro a una “grande incertezza” e non è quindi stato fissato “uno specifico target di crescita economica quest’anno”. Pechino ha fatto più volte ricorso a tagli dei tassi di interesse e dei requisiti di riserva delle banche per sostenere l’economia e prevede l’emissione di bond per mille miliardi di yuan entro fine anno.
Sulla Cina e sul suo presidente pesano le critiche a cui è sottoposta da Washington, sospettosa sull’origine del coronavirus. Gli attriti tra le due grandi economie del pianeta si sono estesi e amplificati con l’arrivo della pandemia, e il deterioramento dei rapporti su tutti i fronti appare difficile da ricomporre.
Taiwan
Taiwan rivendica di avere offerto un modello nel contrasto al Covid-19, che si fonda sul mix di strumenti digitali e di quarantene individuali applicate con rigore, e ha protestato per non essere stata ammessa alla scorsa Assemblea Mondiale della Sanità. Lo slogan “Taiwan can help” e un sostegno internazionale come non si era mai registrato in tempi recenti non sono bastati all’isola che Pechino ritiene parte integrante del proprio territorio nazionale a comparire in video alla riunione virtuale che si è tenuta a Ginevra.
La risposta di Taiwan all’epidemia è motivo di orgoglio per l’isola: 441 casi e sette morti, l’ultimo caso sviluppato localmente risale al 12 aprile scorso. All’inaugurazione del suo secondo mandato, lo ha rivendicato la presidente Tsai ricordando che l’economia continua a crescere, anche se nel primo trimestre l’aumento è ai minimi degli ultimi quattro anni, all’1,54%, grazie alle esportazioni, soprattutto nel settore tecnologico, ma su cui pesa il rallentamento dei consumi interni. Il rapporto con Pechino rimane il nodo più difficile da sciogliere.
La presidente dell’isola, Tsai Ing-wen ha respinto il modello “un Paese, due sistemi” che la Cina vorrebbe applicare all’isola dopo la riunificazione e ha sostenuto la necessità di “trovare un modo per co-esistere nel lungo periodo” evitando antagonismi.
Corea Del Sud
Anche la Corea del Sud ha rappresentato un modello di contenimento dell’epidemia, per la prontezza con cui le autorità sanitarie hanno reagito all’arrivo del virus. Il paese ha affrontato epidemie in anni recenti (come la Mers, la sindrome respiratoria del Medio Oriente) la cui esperienza è servita a non arrivare impreparata alla sfida del Covid-19. Il presidente sud-coreano, Moon Jae-in ha beneficiato del successo della riposta di Seul all'epidemia, confermata dall’affermazione del suo Partito Democratico alle elezioni legislative di aprile.
In occasione dell'ultimo G20 virtuale, Moon ha offerto di condividere con il resto del mondo il modello nazionale di risposta alla pandemia, fatto di test e controlli capillari, ma condotti in maniera elastica e tempestiva, e con un’esposizione ridotta al minimo per gli operatori sanitari. Alla scorsa Assemblea Mondiale della Sanità, Moon ha anche promesso cento milioni di dollari di aiuti per combattere la pandemia e ha chiesto di rafforzare i meccanismi internazionali di primo allarme per il futuro.
La Corea del Sud ha riportato sotto controllo il contagio, e avviato un piano di distanziamento sociale che ha in larga parte funzionato, ma i molti focolai sviluppati localmente (l’ultimo tra i locali notturni di Itaewon, a Seul) hanno destato forti preoccupazioni. Ma il coronavirus ha colpito pesantemente la quarta economia asiatica nel primo trimestre, il periodo in cui il Paese, verso la fine di febbraio, registrava il numero più alto di contagi dopo la Cina. La Corea del Sud ha subito una contrazione dell’1,4% su base congiunturale, la più ampia della crisi finanziaria globale del 2008, pur rimanendo in territorio positivo su base annua (+1,3%). I consumi interni hanno registrato una contrazione del 6,4%; le esportazioni, colpite dai lockdown imposti in altre parti del mondo, sono calate del 2%.
Corea Del Nord
Anche se non ha ufficialmente registrato contagi da coronavirus, durante la prolungata assenza pubblica del leader, Kim Jong-un, che ha attirato attenzioni e speculazioni a livello internazionale, Pechino ha confermato di avere inviato medici e kit per il test al regime.
La Corea del Nord ha imposto misure drastiche per il contenimento dell’epidemia fin dai primi giorni dello scoppio in Cina: è stata tra i primi Paesi a chiudere i confini con la Cina, dopo lo scoppio dell’epidemia, a gennaio scorso, e ha messo in quarantena per 28 giorni 380 cittadini stranieri presenti sul territorio.
In totale, diecimila persone sono state sottoposte a quarantena in Corea del Nord. Il silenzio di Pyongyang sul virus ha destato sospetti: il regime ha lasciato trasparire nervosismo con lanci di missili a corto raggio e altri test di armamenti, apparsi a molti come un’implicita richiesta d’aiuto contro l’epidemia.
Hong Kong
L’ex colonia britannica ha puntato sulla rapidità di risposta e sulla responsabilità sociale dei suoi cittadini. Hong Kong rappresenta una delle risposte più efficaci alla fine dell’epidemia e ha rilassato di recente le regole sul distanziamento sociale. La città ha registrato 1.065 casi di contagio dall’inizio dell’epidemia e soli quattro morti: dopo dieci casi accertati tra giovedì e venerdì scorsi, sabato la città è tornata a zero contagi.
L’amministrazione guidata da Carrie Lam ha deciso nelle scorse settimane la chiusura di esercizi commerciali, ristoranti, cinema, pub, palestre, karaoke, nightclub, centri massaggi e sale da mahjong. Molti di questi sono stati riaperti a inizio maggio, e sono state rilassate anche le regole sul distanziamento sociale, permettendo assembramenti fino a otto persone. Dal 27 maggio, invece, è previsto il ritorno graduale in aula in molte scuole. Il virus ha piegato ulteriormente l’economia, già entra tecnicamente in recessione dopo le lunghe proteste anti-governative dello scorso anno, portandola ai minimi dal 1974.
Nel primo trimestre la contrazione del prodotto interno lordo è stata dell’8,9% e il segretario alle Finanze Paul Chan Mo-po, ha avvertito che entro la fine dell’anno l’ex colonia potrebbe registrare un calo fino al 7%, molto al di sotto rispetto alla precedente stima di una performance economica compresa tra il -1,5% e il +0,5%.
Singapore
La città-Stato asiatica rappresenta il caso di maggiore preoccupazione, al momento. Nonostante forti misure di contenimento messe in atto già dai primi giorni della pandemia, Singapore oggi conta oltre 31mila contagiati (31.068, con 642 nuovi casi accertati nella giornata di sabato). Il numero di contagi è ripreso a salire dopo un focolaio sviluppatosi nei dormitori dove vivono i lavoratori migranti.
Per contrastare il coronavirus, il primo ministro Lee Hsien Loong ha avviato un sistema noto come “circuit breaker” per rompere la catena dei contagi, chiedendo ai cittadini di rimanere in casa: il sistema, che rimarrà in vigore fino al 1 giugno prossimo, ha finora funzionato, ha detto Lee, ma “la battaglia contro il Covid-19 è lontana dal dirsi conclusa”.
La situazione non potrà tornare a quella di prima della comparsa del virus fino a quando non sarà trovato un vaccino, e sarà necessario adattarsi alla nuova normalità. Dal 2 giugno ripartiranno le “riaperture sicure” e graduali di scuole e uffici, ma molti esercizi commerciali rimarranno chiusi e non si potrà cenare al ristorante. Intanto, Singapore ha registrato una contrazione dell’economia del 10,6% su base congiunturale nel primo trimestre, e del 2,2% su base annua, ai livelli più bassi dal 2009, di cui hanno risentito soprattutto i settori delle costruzioni e dei servizi. La recessione appare, secondo ogni stima degli analisti, inevitabile.
Giappone
Dopo una gestione controversa della crisi, il governo di Shinzo Abe ha già decretato la fine dello stato di emergenza in gran parte del paese, e presto lo farà anche a Osaka e Tokio. I contagi si vanno riducendo nel paese da oltre 126 milioni di abitanti e in tutto sono 16.536 con 808 decessi.
Tra gennaio e febbraio il governo ha sminuito la gravità della situazione, nel tentativo di salvare le Olimpiadi; anche successivamente, a differenza dei vicini coreani, sono stati eseguiti pochi test.
Le misure restrittive non sono mai state vincolanti e la popolarità di Abe è scesa ai minimi. L'economia giapponese ha risentito come tutte della crisi: in recessione per la prima volta dal 2015, il Pil si è contratto del 3,4% nel primo trimestre, dopo il -7,3% del precedente e il governo si attende un'ulteriore contrazione della crescita nel prossimo trimestre: si tratterebbe della terza flessione trimestrale consecutiva da quasi 10 anni e cioè dalla catastrofe nucleare di Fukushima.
Nel primo trimestre i lokdown globali e lo stallo delle attività produttive hanno impattato sulle esportazioni giapponesi, che hanno registrato un calo del 6%, la discesa piu' forte da quasi quattro anni. Per contrastare l'impatto economico del coronavirus il governo ha varato mille miliardi di dollari di stimoli, pari al 21% del Pil, mentre la Banca centrale ha lasciato i tassi invariati confermando il riacquisto di titolli e un piano di aiuti da 30 trilioni di yen (circa 255 milliardi di euro) destinati alle piccole imprese.
India
Spostandosi a Ovest, un’analisi asiatica non può prescindere dal gigante del Subcontinente. 1,3 miliardi di abitanti e una possibilità molto scarsa di mantenere le distanze sociali, l’India ha drasticamente ridotto le attività economiche costringendo centinaia di migliaia di lavoratori a viaggi estenuanti per raggiungere i villaggi di origine dopo aver perso il lavoro. Questo ha contribuito alla diffusione del virus che appare ufficialmente ancora contenuta, 131.920 contagi ufficiali e 3.869 decessi,ma si teme che siano grandemente sottostimati come conseguenza dei pochi test effettuati.
Il quasi settantenne premier Narendra Modi invita continuamente la popolazione a rispettare le regole di distanza e di igiene, mostrandosi con la mascherina e dando indicazioni di esercizi fisici da fare a casa ma si segnalano dall’inizio della crisi episodi di violenza contro il personale sanitario potenzialmente infettivo, mentre anche alcune celebrità del mondo di Bollywood sono morte per il virus. Sul fronte economico, dopo 4 decenni di crescita si prevede il primo anno di flessione del Pil di un’economia basata principalmente sui consumi interni.
Modi ha nei giorni scorsi annunciato in tv a reti unificate un pacchetto di interventi che valgono 264 miliardi di dollari (circa 242 miliardi di euro), pari a un decimo del Pil indiano, per affrontare l’emergenza povertà e sostenere le imprese più in crisi. I primi stanziamenti annunciati all’inizio dell’epidemia, pari a circa 23 miliardi, erano stati considerati ampiamente insufficienti. Nei giorni scorsi, la Reserve Bank of India ha anche deciso di tagliare di 40 punti base il tasso di riferimento, portandolo al 4%.