Ankara e Damasco allo scontro frontale, dopo che in un bombardamento 33 militari turchi sono stati uccisi a Idlib, "nonostante coordinate e posizioni fossero state comunicate alla Russia", il grande sponsor del presidente siriano Bashar al-Assad.
Proprio la presenza russa complica un quadro in cui è ancora poco chiaro quale sia stato il ruolo giocato dai militari di Mosca nella strage. Non è un caso che dopo aver acquistato da Mosca il sistema di difesa missilistico S-400 ora Ankara sia tornata a chiedere con insistenza i Patriot agli Usa e i contatti con Washington si siano notevolmente intensificati.
Il faccia a faccia tra l'esercito turco e i militari di Damasco è il risultato di un accordo del 2018, ormai fallito, tra Turchia e Russia per la demilitarizzazione dell'area che Mosca è decisa a rimettere nelle mani di Assad.
Assad fatica ad avanzare
L'offensiva di Damasco, partita ad aprile e intensificatasi da dicembre, si è scontrata più volte con le proteste e le minacce della Turchia, che con 12 check point nell'area, 10 dei quali direttamente coinvolti dall'avanzata siriana, ha cercato di far valere gli accordi raggiunti a Sochi con la Russia. Nei fatti però, nonostante l'enorme investimento in uomini e mezzi, l'avanzata del regime è stata limitata: solo il controllo dei confini esterni della provincia, circa il 25%, è stato consolidato dopo essere stato sottratto ai ribelli.
Un dato che ha imposto al regime di intensificare l'offensiva, fino a colpire ripetutamente i check point turchi, dove 52 militari sono stati uccisi negli ultimi 18 giorni scatenando le rabbiose razioni di Ankara. Una situazione trascinatasi per tre settimane e che ha portato il presidente turco Erdogan a minacciare un'offensiva su larga scala se Assad non ritirerà i propri uomini entro i confini stabiliti a Sochi. Ankara ha 12 mila militari schierati nell'area di confine.
Una minaccia che non sembra aver fermato Damasco, decisa a vincere la propria guerra in una provincia da sempre ostile alla famiglia Assad, divenuta rifugio di miliziani islamisti e gruppi ribelli irriducibili, ma dove vivono anche circa tre milioni di civili, un terzo dei quali preme ormai alle frontiere turche.
Prima dell'entrata in gioco della Russia e della Turchia, erano i battaglioni di Hayat Tahrir al Sham, costituiti da 10 mila miliziani frutto della fusione di diverse sigle islamiste, a controllare il 60% del territorio della provincia. Il restante 40% del territorio era in mano agli uomini del Fronte di liberazione nazionale, un gruppo vicino alla Turchia su cui Ankara ha garantito per il mantenimento del cessate il fuoco.
La presa di Idlib in pratica, lascerebbe fuori dal controllo di Assad (e quindi dei russi) solo alcune zone curde del Nord-Est della Siria (dove però è presente in centri importanti come Hasaka e Qamishli), le strisce di territorio al confine con la Turchia controllate da Ankara (ma che Mosca esigerà a tempo debito).
L'arma dei migranti in mano a Erdogan
Ankara, che ha vissuto anni di iperinterventismo con tre operazioni in territorio siriano lungo il proprio confine tra il 2016 e il 2019, una contro l'Isis e due contro i curdi del Pyd/Ypg, ha i canali di comunicazione con Assad chiusi dal 2011 e dopo una inutile nei fatti pressione su Mosca sta ora facendo pressione sulla Nato, sulla Casa Bianca e sull'Ue, soprattutto attraverso la riapertura delle frontiere al passaggio di rifugiati.
Le stime dell'agenzia Onu per i rifugiati (Unhcr), secondo cui a rischio fuga da Idlib sarebbero due milioni e mezzo di civili è la principale ragione dei ripetuti appelli al cessate il fuoco lanciati dalla Turchia nelle ultime settimane. La prospettiva di nuovi profughi in arrivo in Turchia, al di là dei numeri, toglie però il sonno a Erdogan, che soprattutto per aver accolto milioni di profughi a tempo indeterminato ha perso le elezioni ad Ankara e Istanbul, e per questo apre le porte al passaggio dei migranti verso l'Europa.
Il presidente turco sa però bene che mantenere una sorta di controllo su Idlib rafforzerebbe la posizione della Turchia nei negoziati che riguarderanno, un giorno, il futuro della Siria.