Quando Domenico Lenarduzzi, funzionario responsabile dell’Educazione pubblica alla Commissione europea di Bruxelles, riuscì nel suo intento di fare approvare il programma Erasmus dai leader europei, i Paesi che facevano parte della Comunità erano 12. Era il 1987. Da allora, il programma è diventato il successo più famoso dell’Unione europea, quello al quale nemmeno i più convinti degli euroscettici vorrebbero dover rinunciare.
Lenarduzzi era nato a Torino nel 1936, ma durante la guerra sfollò nel paese della provincia di Pordenone da cui veniva il padre, Ovoledo, ed è morto il 3 dicembre a Bruxelles. Aveva 83 anni. Più di 7 decenni fa, quando ne aveva appena 11, aveva raggiunto il padre in Belgio, dove era emigrato per fare il minatore e sostenere la sua famiglia nei difficili anni dell’immediato dopoguerra, in un Friuli poverissimo. Era il periodo successivo all’accordo che formalizzava lo scambio “uomini contro carbone”, firmato fra il Belgio e l’Italia nel 1946.
Come racconta all’Agi la figlia di Domenico, Isabella, che rivendica con orgoglio le sue origini italiane pur essendo nata e cresciuta a Bruxelles da madre belga, “mio padre era il primo di otto figli un una famiglia che si trovava in condizione di povertà assoluta. In Belgio erano malnutriti e soggetti a gravi privazioni, oltre a subire, come tutti gli italiani dell’epoca, anche gli atteggiamenti razzisti della popolazione locale”. Nonostante questo, spiega Isabella, che oggi è un’imprenditrice sociale fra Belgio e Francia, “mio padre riuscì a tirar fuori dalla sua storia un gioiello, come le ostriche che producono la perla quando sono ferite. Dei 5 fratelli sopravvissuti alla povertà è stato l’unico a studiare, fino ad ottenere due lauree, anche se le privazioni dell’infanzia lo avevano reso paraplegico” per una poliomelite contratta durante la adolescenza.
Lenarduzzi fu assunto alla Commissione europea, ma “dopo qualche anno, si trovava alla direzione Affari sociali e si rese conto che la mobilità, nonostante il trattato di Roma sulla libera circolazione, era ostacolata dal titolo di studio, perché lauree e diplomi non valevano fuori dai rispettivi Paesi”.
Ecco perché cominciò la sua battaglia perché gli studenti potessero viaggiare. “Partì alla conquista di quei Paesi che non solo non erano convinti ma, come la Danimarca, erano decisamente contrari”.
La Corte europea di giustizia gli dette ragione, ma “si scontrò anche con la mancanza di collaborazione fra le università” . Isabella ricorda che quando lei stessa era studentessa universitaria, negli anni ’80, “non si poteva passare dall’Ulb di Bruxelles all’Ulc di Lovanio, distanti pochi chilometri. Decisivo in questa fase fu l’incontro fra mio padre e Franck Biancheri, leader della prima associazione studentesca europea, che convinse il presidente francese Mitterrand a sostenere il progetto, già appoggiato dalla Germania”.
Grazie al progetto Erasmus negli ultimi 32 anni una decina di milioni di giovani europei hanno avuto la possibilità di passare un periodo di studio in un altro paese dell’Unione. Da qualche anno rinominato Erasmus+, offre ora possibilità di scambio anche a professionisti e adulti.
Per il 2020, ultimo anno dell’attuale ciclo settennale, l’Ue investirà oltre 3 miliardi, il 12% in più rispetto a quest’anno. Qualche mese fa, la commissione ha proposto di raddoppiare il bilancio destinato a Erasmus nel prossimo periodo finanziario 2021-202 portandolo a 30 miliardi e consentendo a 12 milioni di giovani europei di partecipare al programma.