In un mondo normale, un politico che mantiene le proprie promesse elettorali dovrebbe essere preso come esempio. Ma quando queste promesse riguardano situazioni che aumentano i conflitti, allontanano le comunità e aumentano il divario fra le diverse anime di un paese, questo politico non deve essere additato come un salvatore, bensì come un monarca autoritario. Anche se guida la più grossa democrazia del mondo, anche se in poco tempo, a volte da un giorno alla notte, prende decisioni che cambiano i destini di oltre un miliardo di persone senza riceverne critiche, le sue azioni devono essere viste con estremo sospetto se, direttamente o indirettamente, condizionano la vita di un popolo, rendono più ampia la forbice tra cittadini di religioni, etnie o estrazioni diverse.
Narendra Modi, è questo tipo di politico. È stato eletto con un plebiscito due volte e per la seconda volta governa e agisce nell’esultanza degli indiani che, democraticamente, hanno votato e lo hanno scelto alla guida della più grossa democrazia del mondo. Eppure non si può dire che il suo sia un pedigree immacolato. La sua avversione per i non hindu, soprattutto musulmani, è nota. La sua volontà di realizzare l’hindutva, l’idea di uno stato indiano di soli hindu, è chiara.
Modi, nei suoi anni di politica in Gujarat, sia come esponente del Bjp (il Bharatya Janata Party, il partito dei nazionalisti hindu) che come capo del governo locale, è stato avvicinato anche a scandali e crimini contro i musulmani. Nel 2002 ad Ahmedabad estremisti indù massacrarono quasi 70 persone, in maggioranza musulmani, e Modi fu incriminato di esserne il mandante (e fu poi assolto al termine di un’indagine che lasciò molti dubbi). In quell’anno in Gujarat, dove Narendra Modi era premier, ci furono molti massacri da parte dei fondamentalisti indù contro i musulmani, come l’incendio di una panetteria a Vadodara nel quale morirono 14 persone, delle quali 11 musulmani.
Da quando lui è premier, le violenze e le discriminazioni contro i musulmani o, comunque, contro i non hindu e il loro modo di vivere, sono aumentate: vengono attaccati luoghi di culto, vengono attaccate macellerie musulmane dove si vende anche la carne e uccisi i macellai che lavorano la carne della mucca ritenuta sacra dagli hindu.
Le intenzioni di Modi
Dopo sei mesi dalla sua riconferma a premier indiano, a quasi tre dall’annessione di fatto del Kashmir, Modi riesce a portare a casa un risultato, a compiere una promessa elettorale, grazie alla sentenza della Suprema Corte indiana per la quale il sito storico di Ayodhya appartiene agli hindu e non ai musulmani. Una decisione che mette fine ad una controversia ultradecennale che ha portato alla morte diretta di oltre 2000 persone e che ha influenzato non poco i rapporti nel paese tra la comunità hindu e quella musulmana.
Ayodhya è una città dello stato settentrionale dell’Uttar Pradesh dove, secondo gli induisti c’era un tempio dedicato al dio Rama, poi distrutto dai musulmani per costruire una moschea nel sedicesimo secolo, a sua volta distrutta dagli hindu nel 1992.
L’attuale premier, sin dalla sua prima elezione alla guida del secondo paese più popoloso al mondo, ha chiaramente detto di voler lavorare affinché ad Ayodhya il tempio potesse tornare a splendere. E ci è riuscito ora. La decisione della suprema corte accoglie delle prove dell’ente nazionale indiano dell’archeologia, l’Archaeological Survay of India, secondo il quale dopo la distruzione della moschea sono stati ritrovati i segni della presenza di manufatti induisti precedenti alla costruzione della stessa moschea, segno che il tempio a Rama non era una leggenda. Basandosi su questo, i cinque giudici hanno deciso che il sito appartiene agli induisti e che i musulmani avranno un’altra area, che dovrà essere individuata, non lontano, per ricostruire la moschea.
Difficile non farsi attraversare dal dubbio che nel decidere, i cinque giudici non siano stati influenzati dal clima che si respira nel paese. Il premier si è affrettato a sottolineare su Twitter che la magistratura è indipendente, ha deciso in autonomia, e che la decisione non rappresenta una vittoria o una sconfitta per alcuno.
Dopotutto, proprio per quanto scrivevamo sopra, il Paese è attraversato da forti sentimenti nazionalisti con la differenza che mentre in altri paesi i sovranisti e i nazionalisti ragionano e agiscono in maniera xenofoba, in India è scontro tra indiani e indiani che divergono solo per la religione. Come già accaduto per Gandhi, ucciso da un nazionalista hindu quando favorì la nascita dello stato dei puri, il Pakistan islamico, il sentimento anti islamico, sopito per tanti anni, ultimamente sta uscendo sempre più forte.
Non che gli altri stiano meglio: gli attacchi alle comunità cristiane, ritenute colpevoli di conversioni forzate (accusa che fu rivolta anche a Santa Teresa di Calcutta) non sono pochi, seppur numericamente minori rispetto a quelli contro i musulmani. Ma questo, a Modi non interessa. Lui va avanti per la sua strada e, per certi versi, giustifica anche il suo consenso perché onora le promesse elettorali. Fa niente se una parte della popolazione è minacciata di continuo, fa niente se in questo momento a Delhi non si respira per l’inquinamento, se le condizioni di vita sono sempre più difficili. Modi aggrega, risponde alla pancia del paese. Il re è vivo, viva il re.
L'Ayodhya
Nella religione induista, il dio Visnu ha dieci incarnazioni, avatar, il settimo del quale è Rama. Un eroe, un grande uomo, casto e devoto alla moglie Sita, gran soldato, difensore del bene, sceso sulla terra per combattere i demoni, in particolare Ravana, come è raccontato nel poema epico Ramayana. La tradizione induista colloca la sua nascita ad Ayodhya, piccolo villaggio dello stato settentrionale indiano dell’Uttar Pradesh. Qui a lui, secondo la tradizione, sarebbe stato costruito un tempio.
All’inizio del tredicesimo secolo, viene creato in India il sultanato di Delhi, il primo governo islamico dell’India, anche se già c’era stata la presenza di insediamenti e costruzioni musulmane nel subcontinente. Nel 1528, ad Ayodhya, i musulmani costruiscono la moschea di Babri, in onore dell’imperatore Moghul Babur, il fondatore e primo regnante della dinastia che governerà l’India per oltre 300 anni. Secondo gli induisti, soprattutto i nazionalisti, partendo da quanto nel 18mo secolo aveva detto un maharaja del Rajasthan, per costruire la moschea, sarebbe stato distrutto il tempio induista dedicato al dio Rama.
Da questo momento, nascono dispute sul territorio che poi sfociano in veri e propri progrom. La Babri Masjid viene utilizzata fino al dicembre del 1949 quando, dei fondamentalisti hindu, dopo nove giorni di preghiere ininterrotte all’esterno della moschea, piazzano nel sito religioso islamico degli idoli di Rama e di sua moglie Sita, dissacrando così il luogo religioso. Per paura dei nazionalisti hindu, gli idoli non furono rimossi nonostante le richieste dell’allora primo ministro Nehru, e la mosche venne chiusa.
Negli anni ’80 del secolo scorso, il Bjaratiya Janata Party, partito politico che era appena nato dalle ceneri di altri movimenti nazionalisti e che si faceva portavoce delle istanze politiche di gruppi fondamentalisti hindu, comincia a chiedere la costruzione di un tempio induista sul luogo dedicato a Rama.
Tra manifestazioni, proteste, scontri, si arriva al 6 dicembre del 1992 quando, oltre 150 mila manifestanti legati alla destra nazionalista induista, condotti da leader che poi avrebbero guidato il paese, stati e il partito come Atal Bihari Vajpayee (poi primo ministro indiano), L.K. Advani (capo del BJP e varie volte ministro) e Uma Bharti (varie volte ministro e chief minister dello stato del Madhya Pradesh), dopo alcuni giorni di preghiere con l’utilizzo di asce, mazze, martelli ed altro, abbattono la moschea.
Da qui, il caos. Ricorsi giudiziari da una parte all’altra, scontri politici ma, soprattutto, una vera e propria guerra religiosa tra hindu e musulmani in diverse città del paese, che porta alla morte di oltre 2 mila persone, per la maggior parte musulmani. Dieci anni dopo la demolizione, fu presentato un ricorso all’Alta Corte di Allahabad che, dopo otto anni, decise che il sito doveva essere diviso in tre parti, affidandolo ognuno ad una dei tre contendenti: l’organizzazione islamica Waqf, il partito nazionalista di destra Hindu Mahasabha e la setta di monaci hindu Nirmohi Akhara. Un appello a questa decisione nel 2011 fece sospendere il verdetto, fino alla sentenza di ieri.