Le Ong che forniscono assistenza sanitaria alle popolazioni curde della regione del Rojava, nel Nord-Est della Siria, sono ancora operative con i loro mezzi e il personale, ma “un’eventuale escalation dell’offensiva turca potrebbe pregiudicare i già pochi servizi sanitari” che offrono alla popolazione civile della zona al confine con la Turchia. Lo riferisce all’Agi il project manager della Ong italiana Un ponte per…, Luca Cafagna, parlando da Dohuk, nel Kurdistan iracheno, a poche decine di chilometri dal confine con la Siria: è da qui che gestisce le operazioni nella regione colpita dagli attacchi turchi.
Qual è la situazione che state affrontando come operatori umanitari?
“Si cominciano a vedere le prime conseguenze devastanti dell’offensiva turca, nel Nord della Siria e non solo vicino al confine con la Turchia. Le città colpite da bombardamenti aerei e colpi di artiglieria terrestre sono diverse, fino a una trentina di chilometri di distanza dal confine. La zona è ad alta densità urbana e la popolazione coinvolta numerosa, oltretutto provata da 8 anni di guerra dai quali cominciava a riprendersi. C’è un numero imprecisato di persone che hanno lasciato le proprie abitazioni, in preda al panico. Alcune centinaia di loro hanno trovato rifugio nelle scuole di Hassake, un’ottantina di chilometri a sud. Le conseguenze dal punto di vista umanitario non sono al momento valutabili”.
Le Ong riescono a lavorare?
“Facciamo il possibile per rimanere operativi: siamo in prima linea nella zona del conflitto con ambulanze di prima emergenza e ci coordiniamo con tutte quelle presenti nella regione. Stiamo facendo un grande sforzo, siamo in prima linea nelle zone più colpite con le ambulanze di prima emergenza per supportare la popolazione civile. Noi sosteniamo una quindicina di strutture sanitarie, ospedali e centri salute della regione, e il nostro partner principale è la Mezzaluna rossa curda”.
Quanti sono i feriti?
“Il numero di feriti fra la popolazione civile è al momento imprecisato, ma probabilmente superiore ai circa 20 confermati ufficialmente: non c’è un adeguato sistema di monitoraggio nelle zone del conflitto”
Dove siete presenti con i mezzi di soccorso?
“Le città in cui sono presenti le ambulanze sono Derek, Derbasye, Qamishlo, Amuda, Ras El Ain, Tel Abiat, Kobane, per trasferire i feriti agli ospedali di Tell Tamer, Hassake, Raqqa ed Ain Issa, più lontani dalla zona direttamente coinvolta”
Quanto è preoccupante la situazione?
“Siamo ancora nella prima fase dell’offensiva e non sappiamo ancora che cosa succederà nelle prossime ore. Si è creata tensione in un territorio in cui la popolazione è già stata colpita dalla guerra e stava cominciando a stabilizzarsi. Un’eventuale occupazione turca nella zona del nord est della Siria potrebbe avere conseguenze gravissime: in passato, si sono già verificate violenze da ‘pulizia etnica’, e si metterebbe in crisi il meccanismo di risposta all’emergenza. Inoltre, Erdogan ha minacciato di espellere milioni di rifugiati siriani che sarebbero da ricollocare e, ancora, c’è il pericolo di un risveglio dell’Isis: già due giorni fa, decine di militanti delle cellule dormienti dello Stato islamico hanno cominciato ad attaccare i campi profughi di Raqqa. Tutto questo avviene perché è venuto meno quel sistema di garanzia di cui gli Stati Uniti facevano parte, con pattugliamenti congiunti con l’esercito turco e quello delle forze siriane democratiche per creare una zona di ‘decompressione’ del conflitto. Guarda caso, gli scontri sono più duri proprio nei luoghi da cui le forze Usa sono partite”.
Che cosa state facendo ora?
“Stiamo mobilitando le nostre unità di emergenza e siamo pronti a rispondere con punti di stabilizzazione dai quali trasportare i feriti negli ospedali che supportiamo. C’è un sistema di coordinamento delle Ong (oltre a Upp, Medici senza Frontiere, Save the Children e diverse altre, ndr) per coprire le necessità stabilite dal piano di emergenza ma se la situazione degenera, non siamo sicuri di poter continuare ad operare. Molte Ong hanno spostato al sicuro il personale evacuando in parte lo staff non necessario, ma continuano a garantire l’operatività sul posto”.