E’ di 57 morti il bilancio delle vittime della rivolta scoppiata il 29 luglio nel carcere di Altamira, nello Stato settentrionale di Parà, in Brasile. Secondo le autorità locali, 16 detenuti sono stati decapitati mentre gli altri sono morti per asfissia dovuta a un incendio appiccato in quell’area del carcere.
Le cause della rivolta sono attribuibili a uno scontro tra membri di fazioni rivali. La vicenda è solo l’ultimo dei frequentissimi disordini che esplodono nelle carceri brasiliane, ormai considerate delle bombe a orologeria. Lo scorso 27 maggio, 40 detenuti furono uccisi in 4 diverse prigioni dello stato di Manaus, in Amazzonia. A gennaio del 2017, 130 persone hanno perso la vita negli scontri tra le due più importanti bande del Paese, scoppiati in più carceri.
Il Brasile ha la terza popolazione carceraria al mondo dopo gli Stati Uniti e la Cina, con 726.712 detenuti a giugno 2016, secondo le statistiche ufficiali. Il numero dei detenuti è il doppio della capacità delle carceri della nazione, che nello stesso anno era stimata in 368.049 persone. Insieme al grave sovraffollamento e alla violenza delle bande, rivolte e tentativi di evasione nelle carceri brasiliane non sono infrequenti.
Ma accanto al sistema carcerario tradizionale, il Brasile sta sperimentando un nuovo modello di prigione, senza armi né guardie, in cui i prigionieri hanno le chiavi delle celle, cucinano e si occupano della sicurezza. Sono le Apac, acronimo che sta per “Associazione di Protezione e Assistenza ai Condannati”.
Riconosciute dalla legge brasiliana, se ne contano sono circa una cinquantina su tutto il territorio e ospitano oltre 3.000 detenuti. Il metodo, nato 40 anni fa per opera di un volontario della pastorale carceraria a San Paolo, Ottoboni, si fonda sul fatto che il condannato riconosce di aver commesso un errore e decide di cambiare vita.
L’alternativa sta dando i suoi frutti: per chi ha scontato la pena all’interno di queste associazioni, si legge sul sito dell’Avsi, la recidiva scende fino al 20 per cento, rispetto alla media brasiliana che sfiora l’80. Non solo. Le Apac convengono anche: il costo di costruzione di un posto/persona è un terzo di quello del carcere comune, e il costo di mantenimento è dimezzato.
Ma come si vive in un’Apac? La prima cosa che si insegna ai “recuperandi” è quella di non tenere lo sguardo basso. Poi a lavorare per sentirsi parte della società e a studiare. Pena l’espulsione dal sistema. Nelle Apac tutti devono darsi da fare a meno che non si sia malati. In che modo? Le giornate sono scandite tra la preghiera, il lavoro e lo studio.
A seconda del reato, ogni detenuto è sottoposto a un determinato regime: chiuso, semi aperto e aperto. I detenuti partecipano ad attività di formazione al lavoro, o a laboratori diversi, e sono incaricati essi stessi di curare i luoghi in cui vivono. Sono liberi di muoversi, cancelli e sbarre, infatti, vengono serrati a chiave solo nel regime chiuso.
I recuperandi indossano vestiti e non uniformi, vengono chiamati per nome, provvedono al loro sostentamento cucinando e alla loro formazione studiando per il giorno in cui usciranno dalla struttura. Le chiavi sono affidate a quei recuperandi che hanno completato il percorso riabilitativo e che vengono incaricati di gestire le celle e monitorare il comportamento dei compagni, secondo il principio di responsabilizzazione cardine della filosofia delle Apac.
Ma non si tratta di prigioni all’acqua di rose: entrare nel sistema richiede alcune precondizioni e un impegno serio. Per iniziare, il detenuto deve essere condannato in via definitiva. Poi deve aver trascorso un periodo di detenzione nel carcere tradizionale. Deve aver fatto richiesta di entrare in un’APAC e, infine, la sua famiglia deve vivere vicino al carcere perché entrerà a far parte del programma. Per mettere su un’Apac, invece, è indispensabile il coinvolgimento diretto della comunità locale e dei magistrati.