Cinquantaquattro feriti e un problema politico che sembra irrisolvibile. Oggi a Hong Kong i manifestanti hanno fatto irruzione nel palazzo dell’Assemblea Legislativa, il parlamento dell’isola, nel ventiduesimo anniversario del ritorno di Hong Kong alla Cina, nella più diretta sfida al potere cinese dal 1997. La polizia in tenuta antisommossa è poi entrata nel palazzo, disperdendo la folla usando gas lacrimogeni. Tra i feriti durante gli scontri, tre sarebbero in gravi condizioni.
Le proteste pro-democratiche si sono intrecciate, nelle ultime settimane, a quelle contro gli emendamenti alla legge sull’estradizione, sostenuti inizialmente dalla capo esecutivo di Hong Kong Carrie Lam e dal governo cinese, che avrebbe permesso la consegna dei fuggitivi anche alla Cina, con cui non è in vigore un trattato sull’estradizione: milioni di persone hanno sfilato nelle scorse settimane per le strade di Hong Kong contro la riforma della legge e l’opposizione a più livelli della società ha costretto la leader Lam alla sospensione a tempo indefinito degli emendamenti proposti e alle scuse pubbliche (sia tramite comunicato, che di persona).
Pechino ha ribadito più volte il “pieno sostegno” alla leader e ha finora mantenuto un ruolo apparentemente defilato rispetto alla vicenda, ma non starebbe alla finestra: il 15 giugno scorso, in conferenza stampa Lam ha glissato a una domanda sulle voci di un suo incontro segreto, la sera prima, a Shenzhen, con il numero sette della gerarchia politica cinese, Han Zheng, per discutere una strategia sulle proteste contro gli emendamenti alla legge sull’estradizione.
Taiwan osserva con attenzione gli sviluppi
La questione di Hong Kong viene vista con attenzione anche da Taiwan, oggi in campagna elettorale per le presidenziali del 2020, in cui la presidente, Tsai Ing-wen, che Pechino guarda con ostilità, è alla ricerca del secondo mandato. Il presidente cinese, Xi Jinping, nel suo discorso di capodanno aveva citato la riunificazione dell’isola alla Cina come un obiettivo a cui Pechino non sarebbe stata disposta a rinunciare, anche ricorrendo all’uso della forza militare. L’idea di Pechino è quella di adottare proprio la formula che caratterizza il rapporto con Hong Kong, “un Paese, due sistemi”.
Nella sostanza, la Cina permetterebbe una certa autonomia sul piano amministrativo ed economico, mentre avocherebbe a sé le politiche estere e di Difesa: un’ipotesi a cui Tsai ha più volte dichiarato la propria opposizione. I disordini a Hong Kong sono tema di discussione nella campagna elettorale per le presidenziali del 2020: anche Terry Gou, il principale candidato del partito avverso a Tsai, il Kuomintang, ha manifestato aperta contrarietà all’ipotesi. “Un Paese, due sistemi ha fallito a Hong Kong”, ha dichiarato il 21 giugno scorso il fondatore di Foxconn, che ha interessi sia in Cina che negli Stati Uniti.
Xi Jinping non si è espresso direttamente, in queste settimane, sulle forti tensioni nella Regione Amministrativa Speciale, ma la questione è un nervo scoperto per la Cina, che ha detto chiaramente, in vista del G20 di Osaka, che non avrebbe accettato di affrontare la questione al summit in Giappone. L’intento non sarebbe pienamente riuscito: un comunicato del Ministero degli Esteri di Tokyo afferma, invece, che la questione è stata trattata durante l’incontro bilaterale tra Xi e il primo ministro giapponese, Shinzo Abe, che ha chiesto una Hong Kong “libera e giusta”.
Anche gli Stati Uniti guardano con attenzione alla vicenda, e minacciano di togliere a Hong Kong lo status speciale conferitole da una legge del 1992. Forti critiche sono arrivate anche dalla Gran Bretagna, a cui ha risposto oggi il portavoce del Ministero degli Esteri cinese, Geng Shuang, affermando che la Cina non apprezza il “gesticolare” di Londra rispetto all’ex colonia che Pechino considera esclusivamente un affare interno, su cui non sono ammesse interferenze.
Cosa farà adesso la Cina?
Un commento ufficiale all'irruzione al palazzo dell'Assemblea legislativa arriva da un editoriale pubblicato online pochi minuti prima della mezzanotte di oggi, ora locale, il tabloid Global Times, giornale affiliato al Quotidiano del Popolo, organo di stampa del Partito Comunista Cinese. "I manifestanti hanno fatto irruzione nel parlamento e questa è una linea rossa che assolutamente non può essere varcata", si legge nell'editoriale dello Huanqiu Shibao, il nome cinese del quotidiano.
"Questa rivolta è una macchia all'immagine di Hong Kong come centro finanziario internazionale", prosegue l'articolo. Le rivolte, come le definisce il giornale cinese che esprime "forte condanna" per i fatti di oggi, "esprimono disprezzo per lo stato di diritto di Hong Kong", e "calpestano gli interessi dell'intera comunità". I manifestanti, definiti "violenti delinquenti", sono "così arroganti da non avere alcun riguardo per la legge di Hong Kong, una scena che infuria e rattrista coloro che amano questa città".
Ora ci si chiede quale sarà la reazione del governo cinese. Una dura repressione delle proteste potrebbe risultare un grosso danno d'immagine per Pechino, che rischierebbe una forte condanna dalla comunità internazionale. Xi tra l'altro negli ultimi mesi si è particolarmente prodigato nel dimostrare di tenere alla tutela dei diritti dei cittadini di Hong Kong, considerata anche la sua importanza nel progetto della Via della Seta. Ma non reagire potrebbe significare un pericoloso segnale di debolezza in un'area dagli equilibri precari, e con forti interessi internazionali in gioco.