“Silvia Romano è ancora in Kenya, non può essere stata portata in Somalia”. Ne è certa la polizia keniana, dopo giorni di silenzio sul rapimento della giovane cooperante avvenuto il 20 novembre 2018 nel villaggio di Ghakama a ottanta chilometri dal Malindi in Kenya. È una notizia positiva. Questo significa che Silvia è ancora nelle mani di quel che rimane della banda di criminali che l’ha sequestrata. Soprattutto non è in Somalia, perché questo significherebbe che la giovane donna sarebbe nelle mani dei terroristi al Shaabab, con tutti i rischi e le incognite che ciò comporta. Rimane, tuttavia, la domanda principe: dove si trova Silvia? Il nuovo comandante della polizia della regione costiera del Kenya, Marcus Ochola, che ha sostituito dall’inizio dell’anno Noah Mwivanda, nell’ambito del rimpasto ai vertici deciso dal Capo della Polizia nazionale Joseph Boinnet, su questo punto sembra avere, anche qui, delle certezze: è nell’area del Tana River.
Ochola, respingendo l’ipotesi che i rapitori abbiamo portato la cooperante italiana fuori di confini keniani, ha anche evidenziato – parlando ai giornalisti del Kenya – elementi di problematicità e criticità nelle ricerche. In primo luogo le condizioni climatiche nell’area del Tana River, che non hanno favorito le ricerche, è alla stessa morfologia della zona. Il Tana River, sia a sud del fiume sia a nord dello stesso, è una zona di boscaglia, dove le comunicazioni sono difficili, se non impossibili. Un’area dove è facile nascondersi, ma dove è necessario avere il sostegno e l’aiuto della popolazione che la abita.
Gli abitanti della zona sono gli unici a conoscere la boscaglia e la savana ma, soprattutto, sono gli unici che sanno cosa si muove in quella zona, in particolare se sono persone che non hanno a che fare con le tribù che la abitano. Da qui il ripetuto, forse ossessivo, appello alla popolazione perché collabori con le ricerche.
Ochola ha, infatti, rinnovato l’appello alla popolazione: “Chiediamo un’ulteriore aiuto alla popolazione locale, senza rischi per gli informatori, promettendo la massima discrezione. Abbiamo bisogno di collaborazione, che fino ad ora non c’è stata. Collaborare con la nostra intelligence significa poter mantenere la sicurezza in tutta la regione”. Una dichiarazione che contiene, da un lato un’ammissione, e dall’altro un cambio di atteggiamento verso le comunità che abitano nel Tana River, ancora soggetta al coprifuoco.
Un’ammissione: la popolazione fino ad ora non ha collaborato, nonostante quello che raccontavano gli inquirenti. Il cambio di atteggiamento: massima discrezione e anonimato per chi collaborare. La polizia, per costringere la popolazione a fornire notizie sugli spostamenti di Silvia e dei suoi rapitori, spesso ha usato il metodo della forza e della brutalità, con arresti generalizzati. In una retata sono state fermate più di 100 persone. Metodo che non ha funzionato. I clan che abitato quest’area hanno nel loro dna l’omertà o meglio: non danneggiare il clan. Parlare può significare essere esclusi dalla comunità, e se è un clan rivale a farlo, può scatenare conflitti. E’ necessario entrare e comprendere la mentalità di questi gruppi etnici e la Polizia dovrebbe ben saperlo. L’autorità dello stato è stata vissuta, invece, come assente o oppressiva.