Distratto da altre crisi internazionali, o dal profluvio di tweet che ogni giorno defluiscono dalla Casa Bianca sui social di tutti continenti, il mondo aveva dimenticato di seguire con la dovuta attenzione il sordo e astioso confronto che continua a dividere Russia ed Ucraina per il controllo della Crimea. L’incidente del Mare di Azov giunge a ricordare che l’area che va dalla Moldavia al Caucaso è una delle zone più ad alto rischio di tutto il Pianeta; tanto quanto il Medioriente o la Corea del Nord, se non di più.
La guerra c’è già, ma non si vede
Il 25 novembre le forze armate russe hanno assalito e sequestrato tre unità della marina ucraina. La piccola squadra navale tentava di raggiungere i porti di Mariupol e Beryansk, in territorio ucraino, passando sotto il ponte chilometrico fatto costruire per collegare, superando lo Stretto di Kerch, la Russia alla Crimea. Mosca ha parlato di "una provocazione" e ha affermato che le tre imbarcazioni non avevano chiesto il permesso di transito, un gesto che le autorità russe considerano un affronto in grado di provocare "un conflitto regionale". Kiev ha, da parte sua, accusato la Russia di aver aperto il fuoco, ferendo due marinai, e di aver sequestrato le tre navi della flotta navale ucraina.
Si è trattato del primo incidente militare che ha avuto luogo tra le forze dei due paesi, quattro anni dopo la guerra non dichiarata che ha visto le forze speciali russe assumere il controllo dell’Ucraina orientale e della stessa Crimea. Un conflitto non ufficiale dal punto di vista giuridico, ma più che reale dal punto di vista sostanziale: i morti sono stati diecimila. Per intenderci: l’assedio pluriennale dei serbi a Sarajevo, a metà degli anni Novanta, ebbe un costo in termini di vite umane appena superiore.
Negli ultimi quattro anni la situazione è rimasta congelata, ma gli scontri sporadici tra le due parti sono proseguiti e di certo non ha aiutato la causa della pace una serie di iniziative da parte russa come il referendum per sancire il ritorno a Mosca della penisola o, come si vede oggi, la costruzione del Ponte di Crimea, che fu inaugurato sei mesi fa personalmente dal presidente Putin.
Insomma: la guerra c’è, anche se non la si racconta.
Mari caldi e sei mesi ancor più caldi
Quanto accaduto poco lontano dal Ponte di Crimea è l’apice di un crescendo di tensioni provocate dalle pressioni del Cremlino su un territorio che è stato russo fino agli anni ’50, e che nel 1992 la Russia ha ceduto all’Ucraina con un accordo internazionale. In particolare negli ultimi tempi l’azione russa si è concentrata sul soffocamento delle attività di Mariupol e Beryansk, che da sole valgono quasi tutto il traffico merci di Kiev verso il Mar Nero e il Mediterraneo, e di qui verso Suez e Gibilterra. In altre parole, la posta in palio in questa crisi è l’accesso ai mari caldi, che poi è una costante secolare della politica estera russa fin dall’epoca zarista.
A maggio la Russia ha spostato in questo quadrante cinque unità della sua flottiglia del Mar Caspio per rispondere alla decisione ucraina di porre sotto sequestro un peschereccio russo (sospettato di spionaggio). La risposta non si è esaurita con quella che avrebbe potuto essere – da sola – una semplice dimostrazione di forza.
Il blocco navale non dichiarato
Da maggio in poi le unità russe sono state utilizzate per il sequestro, più o meno lungo, di almeno 140 navi mercantili in navigazione nelle acque del Mar d’Azov. Si badi bene: non solo navi ucraine, ma anche mezzi mercantili di altri paesi. Tradotto: i russi stanno mettendo in pratica un vero e proprio blocco navale non proclamato nei confronti dei porti ucraini.
Mosca adduce come spiegazione l’esistenza di un accordo firmato nel 2003 da un governo ucraino considerato filorusso, che prevede una gestione congiunta del Mare d’Azov. Ma se si aggiunge a questo accordo il fatto che lo stesso Ponte di Crimea chiude l’accesso a questo braccio di mare alle grandi navi mercantili, il quadro diviene nitido. Le cifre poi dissipano ogni rimanente dubbio: il volume di commerci da e per i porti ucraini è crollato di circa il 25 percento.
Scisma in convento
La crisi tra i due paesi, iniziata quando Kiev ha rotto gli indugi nel 2013 e lasciato intendere di volersi avvicinare alla Nato e all’Unione Europea, ha assunto anche una dimensione religiosa. Lo scorso ottobre la chiesa ortodossa ucraina ha proclamato, con l’accordo del patriarca di Costantinopoli, l’autocefalia rispetto al patriarcato di Mosca. Una mossa di clamorosa rottura con un passato secolare che ha visto nell’unione delle due chiese uno dei più forti collegamenti dell’Ucraina alla Russia. Mosca ha replicato con durezza, ma poco ha potuto fare in termini concreti. La causa nazionale si è sposata così con quella ecclesiale. Non una novità in Europa Orientale, ma da molto tempo non si vedeva una cosa simile.
Dopo l’incidente di pochi giorni fa l’Ucraina ha preso a temere un vero e proprio assalto anfibio al proprio territorio nazionale, a partire dalle cose sud-occidentali del paese. Lo scopo sarebbe quello di rafforzare territorialmente la divisione con la Crimea. Per questo il presidente Poroshenko si è rivolto in diretta televisiva alla nazione per parlare di documenti, che sarebbero in suo possesso, comprovanti l’esistenza di un vero e proprio piano d’attacco delle forze speciali del Cremlino.
Secondo il settimanale britannico The Economist in realtà sarebbe più probabile una nuova fase di pressioni, ancor più forti di prima, non per arrivare ad uno scontro frontale quanto semmai a nuove concessioni. Il problema, a questo punto, è che la Nato e l’Ue hanno già ribadito il loro appoggio politico a Kiev, e lo stesso Poroshenko dovrà affrontare la prossima primavera le elezioni presidenziali. Non esattamente il miglior viatico per l’arrendevolezza. La guerra non è ineluttabile, ma le premesse ci sono tutte.