La scadenza indilazionabile è il 29 marzo 2019: tra sei mesi e non un giorno di più l’Unione Europea dovrà salutare la Gran Bretagna, che in virtù di un referendum vinto di stretta misura dagli antieuropeisti diverrà il primo stato a sganciarsi dall’Ue.
Addio a Bruxelles e ai suoi freddi burocrati, in un modo o nell’altro. Soft Brexit o Hard Brexit, ancora non si sa: le trattative sono in corso, Londra stessa non sa decidersi su quale linea adottare, sul tavolo del premier Theresa May si accumulano rapporti contenenti le previsioni più fosche. Intanto numerose multinazionali hanno lasciato il Tamigi per trasferirsi sul Continente.
Ma anche l’Europa si prepara a subire l’amputazione, e non sarà né piacevole né indolore: il Regno Unito, con tutti i suoi euroscetticismi, è pur sempre una grande potenza economica, politica e militare. Soprattutto, è Europa a pieno titolo e senza di esso il progetto dell’integrazione politica del continente resterà monco.
Piacevoli smentite
Dirsi addio non è mai facile. In questo caso, poi, si tratta di un gioco in cui rischiano di perdere tutti.Anche se, due anni dopo il referendum che ha dato l’avvio a questo divorzio, molte previsioni sono state smentite, e certi luoghi comuni si stanno rivelando molto meno concettualmente solidi di quanto non si pensi.
A guardar bene, c’è di che ricredersi su tante affermazioni di senso comune che sono circolate allora e continuano a girare. Proprio sull’Europa, anzitutto.
La Vecchia Signora può vincere ancora
Il successo della Brexit al referendum del 23 giugno 2016 sembrò far rintoccare a morto la campana per l’Ue: vecchia, snob, lontana dalla gente. Terra di uomini e donne ammantati di grisaglia che parlano cinque lingue ma non sanno cosa sia la vita reale. L’ondata di populismo che tuttora minaccia di sconvolgere la politica dei 27 stati rimanenti ha preso forza quel giorno. Alle elezioni europee del prossimo maggio Steve Bannon, Viktor Orban, Marine Le Pen e Matteo Salvini potrebbero davvero fare il pieno di voti.
Eppure i peggiori incubi degli europeisti non si sono materializzati: nessun altro Paese si è sognato di seguire la via indicata da Nigel Farage, nemmeno nelle democrazie nordiche che una volta facevano parte dell’area di libero scambio creata proprio da Londra per far la concorrenza al Mercato Comune Europeo. Al contrario: la Danimarca è tra i paesi più intransigenti. E persino l’Olanda, particolarmente legata anche economicamente alla Gran Bretagna, ha dimostrato di non essersi dimenticata di essere socio fondatore dell’Unione.
Ora Bruxelles deve riflettere
Il populismo montante sta portando, nelle pubbliche opinioni di molti paesi, ad una crescita anche del consenso all’integrazione europea. A livello politico, la linea del negoziatore Michel Barnier – scelto appositamente per le sue scarse simpatie verso il Regno Unito – vede il sostegno compatto dei capi di stato e di governo.
Insomma: l’urto è forte, ma la fortezza regge meglio del previsto. Attenzione, però: i grandi politici sanno che anche dalle battaglie vinte si deve imparare ad aggiustare i mali che hanno portato alla guerra. È questa la vera scommessa per Bruxelles.
La Manica isola l’Inghilterra
Se Londra sperava di portarsi dietro una fetta d’Europa su cui esercitare la propria primazia, le sue illusioni si sono dimostrate tali. Se sperava di dettare le sue condizioni nel negoziato sulla Brexit, l’esito è stato lo stesso. Al recente vertice di Salisburgo il no dei partner europei al suo piano d’uscita è stato corale. La prospettiva di un addio senza accordo (la cosidetta Hard Brexit) lascia immaginare settimane, se non mesi e mesi, di difficoltà per il Paese anche solo nella reperibilità di medicine e beni di largo consumo. Chi potrebbe essere contento di una soluzione del genere?
La crisi dei conservatori
In più i contraccolpi del referendum si sono fatti sentire in tutta la sua pesantezza sul sistema politico britannico. I Tory sono entrati in una crisi strisciante e profonda incentrata sia sulla leadership, sia sul programma politico. Theresa May fa sempre più fatica a mantenere il controllo del partito, dilaniato dalle divisioni seminate dall’ex ministro degli esteri Boris Johnson, ieri fautore del referendum ed oggi della Hard Brexit.
L’Inghilterra secondo il compagno Jeremy
Ma è forse la mancanza di idee la caratteristica più preoccupante di questa fase della vita politica dei conservatori. Di fronte ad un Labour che, al recente congresso di Liverpool, ha riscoperto le radici socialdemocratiche (se non socialiste tout-court), le uniche idee forti che emergono dallo schieramento opposto si possono riassumere nella formula di un thatcherismo d’annata.
Poca cosa per risvegliare le passioni di un elettorato che già alle elezioni politiche del 2017 ha consegnato a May un mandato molto indebolito rispetto a quello originale. Non è un caso che i laburisti di Jeremy Corbyn si preparino a chiedere, in caso di uscita dall’Europa senza accordi, sia un secondo referendum di ripensamento, sia le elezioni anticipate. Da vincere sulla base di un programma tutto nazionalizzazioni e condivisione da parte della classe operaia dei mezzi di produzione.
Uno sguardo da Washington
In poche parole: in questo momento il vantaggio è per l’Europa, mentre la Gran Bretagna si accorge di non avere più il peso – per non dire il potere di interdizione – di una volta. Intanto però qualcuno guarda all’evolversi della situazione con uno sguardo oltremodo preoccupato.
A Washington e dintorni non ci si nasconde che stiano crescendo le possibilità di vedere una Gran Bretagna infiacchita oltre ogni limite dal duro braccio di ferro con Bruxelles. E non solo perché potrebbe essere tolta la sordina alle istanze separatiste di Scozia e Irlanda del Nord.
Un chiodo che può far perdere un Regno
Se poi si arrivasse ad una Hard Brexit, si avrebbe il disastro. Le relazioni tra l’Ue e Londra diverrebbero a dir poco acide, e non potrebbero non avere ripercussioni non tanto all’Onu (cosa di cui all’Amministrazione Trump non importa molto) quanto a livello Nato. Qui gli interessi americani sono ben chiari e presenti. E negli ambienti atlantici si sostiene che anche l’eventuale vittoria di un partito laburista come l'attuale alle eventuali elezioni politiche porterebbe ad una situazione di sostanziale instabilità all’interno del Patto Atlantico.
Un quadro che potrebbe prevedere, anche a scadenze abbastanza rapide, l’acuirsi delle tensioni commerciali tra America ed Europa, con l’inasprirsi della guerra dei dazi le cui conseguenze sarebbero difficilmente calcolabili.
Come dice una vecchia filastrocca inglese, per un chiodo perduto un intero regno fu perduto. Meglio non toccare equilibri così delicati. C’è da scommettere che alla fine Washington cercherà, chissà con quali risultati, di esercitare una sorta di moral suasion tra le parti.