L’altro piatto della bilancia europea è una cittadina della provincia ungherese di cui, fino a pochi anni fa, poco o nulla si sapeva. Se Bruxelles ospita l’Unione Europea, ospita la Nato, è stata capitale di un impero coloniale ed è considerata con i suoi due milioni e mezzo di abitanti una delle città più importanti d’Europa e del mondo, Visegrad è difficile individuarla sulla mappa o lungo il corso del Danubio, che lì disegna una delle sue anse.
Ha 1.900 abitanti, una decina di caffè e qualche ristorante. Il suo grande vanto è aver dato i natali ad un re d’Ungheria, Luigi I il Grande. In Italia di vanti del genere se ne possono contare a centinaia. Luigi I, poi, era anche straniero di origine: era un Angiò, sangue che più francese non si può. La madre, addirittura, era un’Asburgo.
La Schengen sul Danubio
Il Danubio, alle porte di Visegrad, disegna anche il confine dell’Ungheria. A nord c’è la Slovacchia, poco più a est la Repubblica Ceca, a settentrione ancora la Polonia. Geograficamente è un luogo naturale per incontrarsi, se si proviene da uno di questi paesi. Più o meno come Schengen per l’Europa del Nord, o Maastricht.
Tre teste coronate
Per questo, si legge negli annali, un altro re d’Ungheria chiamato Carlo I (ancora un Angiò) vi convocò sette secoli fa altri due sovrani: Casimiro III di Polonia e Giovanni di Lussemburgo re di Boemia. Erano tutti ostili ad una forza che da occidente tentava di unificare il continente. Una forza che avrebbe sicuramente annientato la sovranità dei loro stati, imponendo una sola lingua, una sola capitale, una sola classe dirigente lontana, sconosciuta e dominante. L’Austria degli Asburgo.
La grande delusione, la piccola illusione
Il progetto sostanzialmente riuscì, se il figlio del sovrano boemo alla fine rubò agli Asburgo la corona di Imperatore del Sacro Romano Impero. Ma non è per questo che Visegrad divenne ispirazione per quei politici-filosofi alla Vaklav Havel che, dopo il crollo del Muro di Berlino, decisero di tornare a vedersi proprio lì, sulle orme dei loro antenati.
Alla fine del secolo scorso l’obiettivo comune di Ungheria, Polonia e Cecoslovacchia (poi divisasi in due) era semmai l’opposto: non allontanarsi dal cuore pulsante dell’Europa, quanto piuttosto fare squadra per esserne parte. Entrare nel grande gioco del processo di integrazione europea: non solo per essere più ricchi, ma per essere più liberi. Era il 1991, l'Europa della primavera dei popoli vedeva nell'unità la chiave del successo futuro.
Ma passata la generazione dei sognatori (i grandi politici spesso lo sono), ha preso piede il disincanto. Nonostante i benefici da Bruxelles non siano stati lesinati: tra il 2010 ed il 2014 la Polonia ha ricevuto 109 miliardi di euro per finanziare le sue riforme economiche; Ungheria e Polonia sono in cima alla lista dei grandi beneficiati dalla Politica Agricola Comune.
No, nonostante tutto questo le riunioni del Gruppo di Visegrad si sono fatte via via sempre più incentrate sulla necessità di opporsi a tutto ciò che da Bruxelles veniva importo (o percepito come tale).
Dietro il rifiuto della redistribuzione dei migranti secondo la Convenzione di Dublino si intravede in realtà un no all’idea che in una grande comunità si perde tutti qualcosa, in termini di sovranità e identità, ma di soliti si guadagna tutti molto di più. Colpa, magari, del recente passato: chi ha sofferto per decenni in quanto suddito dell’impero sovietico alla fine ha paura anche della libertà. Ad ogni modo in questi quattro paesi si è fatta strada la convinzione, o l’illusione, che l’isolamento paghi, non foss’altro perché si evita l’invasione degli islamici.
Se i turchi sono russi
Non a caso la prima a spingere sull’acceleratore del no ai migranti mediorientali e nordafricani è stata l’Ungheria di Viktor Orban, terra che ha nel suo dna secoli di lotta feroce ai turchi. Orban è stato il primo premier centroeuropeo a inaugurare una politica interna di eccessivo rafforzamento dell’esecutivo rispetto agli altri due poteri dello Stato: magistratura e parlamento. Non a caso rivendica con orgoglio l’essere discepolo della teoria della democrazia illiberale.
Un processo subito anche dalla Polonia, dove la formula identitaria si è andata ad innestare nel tronco della tradizione cattolica.
A fare la differenza tra i due casi è l’atteggiamento verso Mosca: Varsavia ha scelto la strada del fortissimo ancoraggio alla Nato e agli Stati Uniti, pensando di trovare a Washington quello che Bruxelles non può darle. Praga è passata nel giro di pochi anni dal chiedere la creazione di un vero e proprio scudo spaziale a difesa dai razzi russi ad un atteggiamento molto più morbido. Ma ad operare la svolta più radicale di tutti è stata, ancora una volta, l’Ungheria. L’avvicinamento al Cremlino, in questo caso, è quasi sfacciato. Un atteggiamento particolare, in un paese che dimostra di considerare la storia nazionale la premessa della politica dell’oggi.
I nuovi amici
Il Fronte di Visegrad si va allargando in questi anni, forte di un generale sentimento di disillusione che serpeggia in molti altri paesi, dove il ceto medio impoverito dalla crisi esplosa nel 2008 ha sviluppato una forte insofferenza verso un’Europa spesso usata dai governi nazionali per giustificare le politiche di austerità.
L’Austria erede degli Asburgo è tra i paesi che più si sono avvicinati agli eredi di Carlo I. La Grande Coalizione di socialisti e popolari ha lasciato il posto, alle ultime elezioni, all’alleanza tra un Partito Popolare che ha virato decisamente a destra ed i liberali, da almeno vent’anni voce della destra xenofoba. Il giovane ed ambizioso cancelliere Sebastian Kurz ed il leader del Fpoe, Hans Christian Strache hanno avuto fin dal primo giorno un forte feeling con Orban.
In Germania la Csu bavarese sta subendo lo stesso tipo di evoluzione, e le posizioni del ministro dell’interno Horst Seehofer in materia di immigrazione richiamano da vicino i dogmi di Visegrad (salvo poi innescare un processo che vede il suo partito perdere punti percentuali a favore degli estremisti di Alternative fuer Deutschland).
Visegrad alla conquista di Bruxelles
L’Italia, con la nascita del governo giallo-verde in seguito alle elezioni del 4 marzo, ha in Matteo Salvini il miglior amico di Orban, un interlocutore della Russia di Putin e l’uomo che ha impostato un grande progetto per conquistare l’Europa.
Tra nove mesi, infatti, si svolgeranno le elezioni europee più importanti dalla nascita dell’Ue. I due blocchi partitici tradizionali, il socialista e il popolare, sono in crisi conclamata. Lo spazio per sfondare da destra, magari in alleanza con la Francia di Marine Le Pen, è immaginabile.
Lo sa bene Salvini, che a fianco di Orban ha teorizzato l’alleanza per battere le sinistre (e soppiantare i popolari) ed individuato il nemico su cui concentrare gli strali: Emmanuel Macron, il presidente centrista e liberista di una Francia che finora lo ha sostenuto solo in contrapposizione con Le Pen.