Poteva un popolo di uomini, stanchi di chinare la testa e tirare avanti, sperare che il comunismo avesse un volto umano? La riposta arrivò, fredda e terribile, esattamente cinquant'anni fa sulle piazze di Praga, al rumore dei cingoli dei carri armati.
No, non era possibile, anche se negli innumerevoli rivoli in cui, nel suo sviluppo storico, si è suddiviso il marxismo-leninismo ce n'era uno cui si poterono brevemente abbeverare anche quanti coltivavano questa illusione.
Una mostra di Agi per raccontare il Sessantotto e i fatti di Praga
Una stagione di speranza e di ideali - seguita dalla terribile disillusione - che attraversò da una parte all'altra la Cortina di Ferro. Prima sotto forma di scossa fatta di attese, poi sotto le più concrete sembianze degli esiliati che riuscirono a riparare in Occidente, soprattutto in Italia. La prima fase sarà ricordata come la Primavera di Praga, la seconda fu l'inverno del nostro scontento.
La timida rivoluzione di Dubcek
Protagonista di questa vicenda, destinata ad influenzare i rapporti tra Est ed Ovest e la stessa politica italiana, Alexander Dubcek, leader del partito comunista slovacco e divenuto, una mattina di gennaio, segretario del partito comunista della Cecoslovacchia. Con lui a capo, la direzione del partito vara una serie di riforme con l'obiettivo dichiarato di trovare una nuova strada al socialismo, e poter scoprire che ancor prima della costruzione della società senza classi era possibile costruire una società, molto più semplicemente, umana.
Concretamente Dubcek e i suoi proposero un pacchetto di misure che ooggi, e in questa parte dell'Europa, non esiteremmo a definire le semplici basi di un ordinamento liberale. Tra le altre cose si chiedeva l'abolizione della censura, la democratizzazione della vita politica, la creazione di maggiori margini di manovra decisionale per i responsabili delle aziende statali. Nella Cecoslovacchia presa nelle spire del Patto di Varsavia questo non poteva che significare la cessazione del controllo del partito comunista della propaganda con cui si creava il consenso al regime, la nascita di più partiti politici e la fine del ruolo guida di quello comunista, la cancellazione del dirigismo statalista nell'economia.
In una parola, da una parte si sperava di dar vita ad un socialismo pronto ad archiviare sia le letali asperità dello stalinismo sovietico, sia la stagnazione ideologica ed economica dell'era brezhneviana, all'epoca al massimo della sua potenza; dall'altra questo significava la fine di tutto ciò che il bolscevismo aveva generato dal 1945 in poi. Anche se Dubcek in fondo si sarebbe accontentato di molto meno: far respirare ai suoi concittadini un po' di quell'aria salubre che a sprazzi era stata avvertita altrove, e si chiamava destalinizzazione.
Destalinizzazione e libertà
Il processo di destalinizzazione che si era sviluppato in Cecoslovacchia dall'inizio degli anni Sessanta era stato accompagnato fin da subito da crescenti pressioni in senso riformista (soprattutto fra intellettuali e studenti) e da una forte ripresa dell'autonomismo slovacco. Ad essere messi in discussione, insomma, molti dei granitici principi basilari del marxismo-leninismo imposto da Mosca nel 1948 dopo la Seconda Guerra Mondiale e l'uccisione del primo ministro democratico Jan Masaryk.
Ad essere chiari, Dubcek fin dall'inizio lavorò per rassicurare il Cremlino: cosciente che la prospettiva di una finlandizzazione era ciò che aveva decretato l'intervento sovietico in Ungheria nel '56, scelse volutamente una definizione del nuovo corso che escludesse categoricamente un ripensamento della posizione di Praga dal punto di vista dottrinale e, soprattutto, internazionale.
La dottrina Brezhnev e l'invasione sovietica
Fossero stati i tempi di Mikhail Gorbaciov, magari sarebbe bastato. Ma il segretario del Pcus si chiamava Leonid Brezhnev, ed era l'uomo che insieme alla vecchia guardia del partito aveva costretto all'esilio in Crimea Nikita Khrusciov. La sua politica era più o meno questa: nessuna concessione su nessun punto, altrimenti il sistema inizia a crollare. A rendere forte la sua intransigenza anche la presenza, all'interno del partito comunista cecoslovacco, di un'ala conservatrice che mal digeriva il nuovo corso.
Si arriva così, il 21 agosto 1968, all'invasione del Paese da parte dei carri armati sovietici. I dirigenti cecoslovacchi furono costretti a bloccare il processo riformatore, progressivamente indeboliti e infine sostituiti da una nuova leadership più gradita a Mosca. Affermerà nel novembre successivo lo stesso Brezhnev: "Quando le forze che sono ostili al socialismo cercano di portare lo sviluppo di alcuni paesi socialisti verso il capitalismo, questo non diventa solo un problema del paese coinvolto, ma un problema comune e una preoccupazione per tutti i paesi socialisti".
Era la giustificazione ideologica dell'intervento, una glossa a pie' di pagina a "Il diritto dei popoli all'autodeterminazione", saggio scritto da Lenin nel lontano 1904. Per gli storici diverrà la Dottrina Brezhnev, quella della sovranità limitata dei paesi del Socialismo Reale. Reale, sia chiaro, cioè concreto. Di certo non dal volto umano.
Soprattutto, era la teorizzazione della natura e della pratica di quello che sempre gli storici hanno definito ormai da decenni l'Impero Sovietico. Dizione basata su un apparente ossimoro, essendo il comunismo nato proprio nel nome dell'internazionalismo, vale a dire una dottrina per cui nelle relazioni internazionali uno vale uno. Ma se il socialismo reale assomiglia tanto al dispotismo, la comunità dell'Unione Sovietica e dei suoi "Paesi Fratelli" (definizione ufficiale dei documenti del Patto di Varsavia) più che un agape ricordava l'Impero Zarista. Ed a quello, secondo Adam Ulam e Zbigniew Brzezinsky, il Cremlino si sarebbe sempre ispirato. come i maiali della Fattoria degli Animali con il vecchio padrone Jones.
Insomma, mai niente di nuovo sotto il sole. Il Cremlino resta il Cremlino, indipendentemente da chi vi risieda: con le sue aspirazioni, i suoi progetti, il suo Grande Gioco.
La guardia forestale che sarebbe tornata dal passato
Nel 1969, pochi mesi dopo la repressione violenta della Primavera, lo stesso Alexander Dubcek deve lasciare la segreteria del partito comunista cecoslovacco per subire serie di rapide retrocessioni: prima presidente dell'Assemblea federale cecoslovacca, poi ambasciatore in Turchia, infine funzionario del Dipartimento forestale della Slovacchia.
Triste fine per un comunista di autentica fede e stirpe: da bambino aveva seguito la famiglia nella repubblica sovietica del Kirghizistan dove il padre aveva voluto trasferirsi all'inizio degli anni Trenta per dare il suo contributo alla costruzione dello Stato socialista. Rientrato in patria nel 1938 si era iscritto al partito, allora illegale, aveva partecipato alla Resistenza contro i nazisti, aveva fatto una brillante carriera ed era tornato in Urss per laurearsi cum laude nella scuola del Pcus a Mosca.
La sua svolta riformista aveva ottenuto il più ampio consenso popolare. Nei giorni terribili dell'invasione, i cechi cambiarono sui cartelli stradali il nome di molti villaggi in Dubcekovo (paese di Dubcek) e riuscirono a confondere le idee delle forze sovietiche. Ciononostante, Dubcek fu trasportato a Mosca, duramente redarguito e costretto ad accettare lo stato d'occupazione.
Gli fu permesso di restare alla testa del partito perché la dirigenza sovietica voleva costringerlo a recitare pubblicamente la parte del reo confesso e penitente. Poi l'esilio interno nelle foreste attorno alla natia Bratislava. Durò 30 anni esatti, fino all'autunno del fatidico 1989, quando ormai invecchiato - ma non aveva molto l'idea del disilluso - apparve, sorridente e commosso, a un balcone di piazza San Venceslao, accanto a Vaclav Havel.
Il vecchio politico ed il giovane intellettuale destinato alla politica: i due volti del paese centroeuropeo. Di fronte a quel milione di persone lui seppe solo mimare un gesto, in continuazione, come se solo quello bastasse a cancellare tutto il passato: un abbraccio, ripetuto e ripetuto e ripetuto ancora, come se ne avesse voluto darne, uno per uno, a tutti quanti.
Qualche giorno dopo, festeggiato e applaudito come un precursore, fu eletto alla presidenza del Parlamento. Visse ancora tre anni durante i quali ricevette, con altri riconoscimenti, una laurea honoris causa dell' Università di Bologna. Morì nel novembre del 1992, dopo un grave incidente automobilistico. Cinque mesi prima la sua Slovacchia si era separata dai cechi e aveva proclamato la propria indipendenza. Ma anche la divisione in due del Paese, seppure mantenendo una forma di stato federale, era nel programma dei riformatori del 1968.
Praga, Italia
Il 1956, con i fatti di Ungheria, era stato il primo grande trauma della storia del Pci. Dopo l'intervento in Cecoslovacchia delle truppe del Patto di Varsavia, molti guardarono verso il Partito comunista italiano nella speranza di cogliere qualche utile segnale. Ma il Pci sembrava essere altrettanto esitante. Luigi Longo , segretario del partito, espresse dissenso e riprovazione. Ma dopo un difficile dibattito interno, il partito finì per adottare una linea equidistante fra il riformismo di Alexander Dubcek e l'ortodossia sovietica.
Particolarmente equidistante fu Pietro Ingrao. In generale tra i due Sessantotto - quello delle barricate di Parigi e quello di Praga - gli intellettuali impegnati a sinistra non hanno dubbi. Parigi ha indicato, anche se in modi confusi e pasticciati, nuovi modelli rivoluzionari: il Vietnam, Cuba, soprattutto la Cina comunista. Ma liquidare il dibattito interno al Pci come una silenziosa e pilatesca alzata di spalle sarebbe un controsenso.
Nel febbraio 1969, infatti, il XII Congresso del partito affianca all'anziano segretario la stella nascente di una nuova generazione. Si chiama Enrico Berlinguer, che succederà a Longo, avvierà quella fase passata sui libri di storia come Eurocomunismo (una terza via tra la socialdemocrazia e il Socialismo reale), che tanto preoccupò i comunisti sovietici.
Ed infine enunciò Lo Strappo: "L'Urss ha esaurito la sua forza propulsiva". Ed ora anche un comunista italiano come lui poteva dire a gran voce di sentirsi più al sicuro sotto l'ombrello protettivo della Nato che non nel Patto di Varsavia. Bye bye, Lenin. la marcia del Pci attraverso le istituzioni, iniziata tyra mille dubbi con la Svolta di Salerno, era ormai conclusa. Grazie anche a Dubcek e ad un ragazzo chiamato Jan Palach.
Il ragazzo con gli appunti nello zaino
L'occupazione sovietica durò di fatto fino al 1989 (il ritiro ufficiale dei carrarmati è del febbraio 1990). La resistenza, destinata a prendere la via dei teatri e della letteratura altrettanto. Intanto però i dissidenti avevano trovato un emblema, un martire. Un giovane studente di filosofia che amava girare con uno zaino pieno di appunti e considerazioni.
Nel tardo pomeriggio del 16 gennaio 1969 Jan Palach si recò in piazza San Venceslao, al centro di Praga, e si fermò ai piedi della scalinata del Museo Nazionale. Si cosparse il corpo di benzina e si appiccò il fuoco con un accendino. Rimase lucido durante i tre giorni di agonia. Ai medici disse d'aver preso a modello i monaci buddhisti che facevano altrettanto per protestare contro la guerra in Vietnam. Al suo funerale, il 25 gennaio, parteciparono 600.000 persone, provenienti da tutto il Paese.
La lapide che lo ricorda, nel luogo del suicidio, si trova ancora adesso a Piazza San Venceslao. A pochi metri dal balcone dove Dubcek si affacciò una sera del fatidico 1989. In Italia quell'estremo gesto di protesta (seguito da altri sette suicidi di altrettanti amici di Palach) venne ricordato da una bella canzone di Guccini. Si legge nel testo: "Dimmi chi sono quegli uomini stanchi / di chinare la testa e tirare avanti". Le radici della democrazia.