Zehra Dogan è un’artista e giornalista turco-curda che nel luglio 2016 è stata arrestata al confine con la Siria, dove viveva e lavorava e condannata meno di un anno dopo a due anni e dieci mesi di carcere per aver postato sui social una foto del dipinto con cui raccontava la distruzione della cittadina a maggioranza curda da parte delle forze di sicurezza turche. Alla sua vicenda l’artista britannico Banksy ha dedicato un enorme murale nel Lower Est Side a New York. Sotto al graffito che mostra Dogan intrappolata dietro una fila infinita di sbarre che ricorda il modo che hanno i detenuti per segnare i giorni che passano, campeggia la scritta 'Free Zehra Dogan'. Ora Dogan è riuscita ad aggirare i filtri di sicurezza e scrivere a Banksy per ringraziarlo del suo impegno. Una lettera, pubblicata su Instagram dallo stesso artista anonimo e riportata dal Corriere, che è anche una testimonianza dell’inferno quotidiano vissuto da Dogan.
Caro Banksy
ti sto scrivendo questa lettera «illegale» da un carcere, luogo di sanguinose torture, in una città con tante proibizioni, in un paese ricusato.
La lettera è illecita perché devo rispettare un «divieto di comunicazione» che mi impedisce di mandare lettere o di fare telefonate, così sto scrivendo e spedendo questa lettera in maniera clandestina.
Prima di tutto vorrei parlarti dell’atmosfera che c’è qui, siamo stati portati alla follia a causa dal suono orribile di dozzine di jet da combattimento che partono per bombardare le nostre bellissime terre, montagne e città. Sentiamo questo suono circa una volta all’ora. Sappiamo che ogni jet da combattimento sta uccidendo in poco tempo le nostre sorelle, i nostri fratelli, parenti e animali.
E’ molto difficile descrivere il sentimento che si prova leggendo quasi tutti i giorni sul giornale che qualcuno che conosci è stato ucciso. Era un giorno come questo quello in cui abbiamo sentito che la figlia di un amico che si trova nella nostra stessa prigione era stata uccisa a Afrin. Lo stesso giorno abbiamo scoperto che un’altra prigioniera si é suicidata, impiccandosi con il laccio delle scarpe. Un giorno di morte. In giorni come questi è difficile sopravvivere. Durante i nostri dibattiti quotidiani abbiamo affermato: «Nessuno vede che abbiamo ragione e che veniamo schiacciati e distrutti dai massacri. E anche se lo vedono, nessuno fa niente e tutti rimangono in silenzio. Stiamo vivendo una bugia in una vita immaginaria».
Qualche momento dopo, un amico ha ricevuto i giornali che erano stati spediti e abbiamo visto la tua opera d’arte su Nusaybin e su di me, come protesta contro l’intera carcerazione. In un momento di pessimismo, il tuo supporto ha reso me e i miei amici qui enormemente felici. Lontano da me e dalla mia gente, è stata la migliore risposta al regime corrotto che non tollera nemmeno un’illustrazione.
Ciò che caratterizza questo paese, che massacra chi si ribella all’oppressione, ciò di cui ha più paura è mostrare la realtà proprio come uno specchio.
Grazie al tuo aiuto la mia illustrazione ha compiuto la sua missione, quella di mostrare le atrocità. Sono rimasta sorpresa quando mi hanno accusata di «portare le persone alla ribellione, alla rabbia e all’odio». Adesso posso però affermare che «quest’opera ha dato valore al tempo trascorso in prigione perché sono riuscita a mostrare la verità di Nusaybin».
La gente mi ascolta più che mai e, mentre i capi in questo paese che parlano la mia stessa lingua (visto che mi hanno costretto a imparare il turco) non mi capiscono, le persone che vivono in altri paesi che parlano lingue diverse riescono a capirmi. L’arte è un mezzo di comunicazione che va oltre la lingua e la parola.
Non finirò mai di ringraziare te e Barf. Non avrei mai potuto immaginare che la mia illustrazione sarebbe arrivata in una città come New York. Passo dodici ore al giorno a immaginare, ma questo va addirittura oltre la mia immaginazione. Adesso mi sento più forte e sto dipingendo Afrin.
Perché ne vale la pena.