Con la discussione di oggi alla Camera dei Comuni si vedrà fin dove l'ala dura dei Tories vorrà portare avanti lo scontro sulla 'soft Brexit' proposta da Theresa May, ovvero se i fautori della linea dura sul divorzio da Bruxelles, che giudicano troppo morbido il piano della premier, vorranno o meno condannare il già fragile governo conservatore a una fine prematura. Archiviata la richiesta di un voto di fiducia, parrebbe di no. Ma, anche qualora la partita fosse solo rimandata, i 'Brexiteer' hanno già un leader e un potenziale candidato alla guida di Downing Street: Boris Johnson, dimessosi dal governo la settimana scorsa, insieme al ministro per la Brexit David Davis, in polemica con l'atteggiamento di May, giudicato troppo arrendevole e dialogante. L'ex ministro degli Esteri è tornato alla professione che svolgeva in precedenza, quella di editorialista per il Daily Telegraph, il quotidiano conservatore, schieratosi a suo tempo a favore del 'Leave', che gli versava uno stipendio pari a circa il doppio di quello che gli garantiva il Foreign Office: ben 250mila sterline all'anno, una cifra da capogiro che l'interessato ebbe nondimeno a definire "mangime per polli".
L'endorsement di Trump (e di Bannon)
"È tornato", titolava oggi la prima pagina del Telegraph accogliendo di nuovo Johnson tra le sue penne. Il suo primo editoriale da ex ministro non contiene quegli affondi polemici per i quali i lettori conservatori lo amavano. Anzi, è fin troppo istituzionale, nel suo rivendicare la bontà del disegno di una 'Global Britain' che non gli sarebbe stato concesso di portare a termine. Una ragione c'è: l'articolo ha tutta l'aria del primo mattone di una campagna elettorale che non si sa quando partirà ma lo vede già schierato in prima linea per conquistare prima la guida del partito e poi quella dell'esecutivo. Una battaglia nella quale non ha al suo fianco solo la pattuglia, al momento difficile da quantificare, di Tories ribelli. I suoi principali sostenitori sono a Washington.
Nell'intervista al Sun piena di attacchi alla strategia di May (poi bollata come 'fake news' al momento di incontrare la premier), Donald Trump aveva espresso le sue simpatie per l'ex sindaco di Londra, lasciando intendere che dialogherebbe più volentieri col Regno Unito se il capo del governo fosse lui. Ed è davvero significativo che, nello stesso giorno dell'incontro tra Trump e May, lo stesso Telegraph pubblicasse un'intervista a Steve Bannon, nella quale l'ex chief strategist della Casa Bianca invitava Johnson a sfidare apertamente May per la premiership. Se formalmente tra Trump e Bannon c'è stata rottura, in realtà il lavorio dell'ex capo di Breitbart per costruire un'internazionale sovranista rimane un formidabile gioco di sponda a favore della strategia globale di Trump.
Una rivendicazione un po' velleitaria
Il significato politico dell'editoriale di Johnson è quindi più interessante dei suoi contenuti. Il messaggio patriottico suggerito dal titolo ("Il resto del mondo crede nella Gran Bretagna. È tempo che lo facciamo anche noi) si scontra invece con la realtà del periodo post-referendum, nel quale l'incertezza sull'esito e i dettagli della trattativa tra Londra e Bruxelles aveva frustrato i tentativi di May di stringere nuove alleanze e, soprattutto, nuovi accordi bilaterali in campo commerciale. Per Johnson la Brexit doveva essere il primo passo per una "Global Britain" che fosse "più aperta, più rivolta all'esterno e più impegnata nel mondo che mai", una chance per riscoprire il "dinamismo" dell'epoca vittoriana, nientemeno, per "utilizzare ogni oncia del potere britannico, sia 'hard' che 'soft', per tornare sulla ribalta mondiale in una maniera che avevamo forse dimenticato negli ultimi 45 anni: per cercare amici, per aprire i mercati, per promuovere la nostra cultura e i nostri valori".
Suona un po' velleitario, però, l'elenco dei successi diplomatici rivendicati da Johnson a proposito del suo mandato. Come risultato più significativo viene citata l'espulsione coordinata di diplomatici russi da parte di altri Paesi europei in seguito all'affare Skripal, avvenuta in un contesto di già profondo contrasto tra Mosca e l'area Nato. Poi viene menzionata una "intensificazione dei rapporti con gli Usa" che di fatto non c'è stata, nonché il "ravvivare le vecchie amicizie del Commonwealth". Si sottolineano con fierezza la richiesta dell'Angola di entrare nel Commonwealth e il cambio di regime in Zimbabwe, poca roba in un Africa sempre più dominata dalla Cina e dove il potere europeo con maggiore influenza rimane la Francia. In conclusione, arriva un appello all'orgoglio nazionale di chi vive in un Paese che è "la capitale tech dell'emisfero; il maggior centro finanziario; un posto dove un college di Oxbridge vanta più premi Nobel della Francia", nonché "esporta sei volte più show televisivi di ogni altro Paese europeo e produce la maggior parte dei musicisti più venduti". Se questo è l'inizio della corsa verso Downing Street, da una personalità sopra le righe come Johnson era lecito attendersi di più. Ma di sfidanti più carismatici, al momento, non se ne vedono, a meno che Jacob Rees-Mogg non rompa gli indugi.