Il ramadan è alle porte e il mondo islamico si prepara al mese di digiuno, uno dei cinque pilastri che ogni buon musulmano deve seguire. Da quest’anno però, in Turchia l’astinenza oltre che cibo, bevande, sigarette e pensieri peccaminosi, potrebbe arrivare a investire anche il web. A pochi giorni dall’inizio del Ramadan infatti, la Direzione per gli affari religiosi (Diyanet), massima istituzione religiosa in Turchia, ha lanciato un appello a tutti i praticanti.
"L'impatto di internet nelle nostre vite sta diventando preoccupante ed è necessario trovare una soluzione. La risposta potrebbe essere il digiuno informatico". Questa è “l’indicazione” data dal professor Ilhan Kilic nell’ultimo numero della rivista ufficiale della Diyanet. Una maniera, secondo Kilic, per valorizzare i momenti passati con le persone che ci sono vicine, "invece di passare ore con qualcuno che non abbiamo mai incontrato di persona e forse non incontreremo mai", un modo per "allontanarsi dalla moda e avvicinarsi a Dio".
L’appello lanciato da Kilic, c’è da dire, non è una fatwa, ovvero un parere (teoricamente) vincolante emesso in risposta a un dubbio formulato da un musulmano, ma un’interpretazione del passo del Corano in cui vengono elencate le astensioni obbligatorie, in cui Maometto invita la propria comunità ad astenersi dalle “tentazioni terrene”. Tra queste rientrerebbero gli smartphone e i social media, in un Paese in cui nel 2017 il 24,5% degli 81 milioni di abitanti ha utilizzato Facebook, il 17% Twitter e il 10% Instagram. Numeri che, secondo l’istituto di ricerca Cint, sono destinati a superare il 50% nel 2021 per quanto riguarda Facebook e quasi raddoppiare gli utenti per gli altri social. Staremo a vedere come reagiranno i turchi, specie i tanti social-dipendenti, così come anche i più di tre milioni di siriani nel Paese, al richiamo di un istituzione, il Diyanet, che ha subito alterne fortune negli ultimi anni.
Un'istituzione fondata dal laicissimo Ataturk
Da un lato l’Islam, che ha sempre trovato la sua maggiore risorsa nelle interpretazioni e nell’adattabilità alle diverse epoche, sarà perciò interessante vedere se e come l’appello di Kilic attecchirà o verrà confermato da altre personalità e imam del mondo islamico. Dall’altra un’istituzione fondata nel 1924, in Turchia né più né meno di un apparato statale che sostituì lo “Sceicco”, la più alta carica religiosa ai tempi dell’impero ottomano, per porre la sfera religiosa sotto il controllo di quella politica, nella convinzione del padre della Turchia Ataturk, che la religione costituisse un ostacolo alla modernizzazione della repubblica nata dalle ceneri dell’impero.
Il Diyanet è tornato sulla scena politica turca gradualmente, soprattutto in seguito all’ascesa al potere dell’attuale presidente Recep Tayyip Erdogan, che ha rimosso migliaia di funzionari religiosi in seguito al golpe del 5 luglio 2016, con l’accusa di avere legami con la rete golpista di Gulen e seguire la dottrina dell’imam autoesiliatosi negli Usa.
La fatwa sul Bitcoin e le altre polemiche
Nell’ultimo anno il Diyanet è balzato sulle prime pagine dei giornali turchi per essersi schierato contro l’acquisto di Bitcoin, l’utilizzo della tintura per capelli da uomo e la presenza di donne “vestite in abiti succinti e occidentali” durante la trasmissione tv (poi chiusa) di Adnan Oktar, un predicatore islamico autore di una “teoria sul creazionismo islamico”, che amava discorrere di religione attorniato da ballerine. Polemica sedata, seppur tra mille imbarazzi, quella sul matrimonio tra minori. Nonostante sia vietato dalla legge, in una voce dell’enciclopedia online del Diyanet è comparsa (e poi rimossa), una voce relativa il raggiungimento della pubertà, fissando a nove anni l’età minima per il matrimonio di una donna. Un’uscita che non è piaciuta allo stesso Erdogan, e che ha fatto cadere alcune teste all’interno della massima autorità religiosa del Paese, con il presidente che ha dovuto ricordare che il Diyanet è stato creato per tenere la religione sotto il controllo dello stato, ed ancora oggi è così.