Non c'è alcuna prova che Donald Trump, o lo staff della sua campagna elettorale abbiano colluso con la Russia, che sarebbe stata interessata a favorire la sua vittoria considerando il candidato repubblicano come più favorevole a una distensione con Mosca di Hillary Clinton. È la conclusione delle indagini sul cosiddetto Russiagate svolte dalla Commissione Intelligence della Camera dei Rappresentanti. Un verdetto che non chiude affatto la vicenda (è ancora in corso l'inchiesta penale portata avanti dal procuratore speciale Robert Mueller) e che non soddisfa la componente democratica della Commissione, secondo la quale le indagini sono state chiuse troppo presto e condotte in modo parziale. Va qua ricordato che a presiedere la Commissione era un fedelissimo del presidente, David Nunes, deputato della California tra i più vicini a Trump. Quest'ultimo, nondimeno, ha esultato sul suo social network preferito.
"Una totale caccia alle streghe! DEVE FINIRE ORA!", tuona 'The Donald', compiacendosi di come, invece, l'inchiesta abbia portato alla luce versamenti che il personale della campagna di Hillary Clinton avrebbe effettuato per ottenere informazioni su possibili relazioni pericolose tra Trump e Vladimir Putin.
Nelle conclusioni (consultabili a questo link) si legge che non c'è stata "alcuna prova" di un coordinamento tra la campagna elettorale di Trump e il Cremlino, né di un "coinvolgimento di figure vicino a Trump nel furto o nella pubblicazione delle email relative alla campagna della Clinton", sebbene venga riconosciuto che lo staff del futuro presidente abbia avuto "numerosi contatti poco avveduti con Wikileaks".
"Come ho sempre detto, è tutta una colossale montatura dei democratici basata su pagamenti e menzogne", prosegue Trump. Più che mettere, almeno parzialmente, una pietra sulla polemica che domina da oltre un anno il dibattito pubblico statunitense, queste conclusioni rischiano però di aggravarla, riproducendo senza variazioni significative la relazione diffusa il mese scorso dalla maggioranza repubblicana in Commissione.
L'ira dei Democratici
I componenti democratici della Commissione hanno reagito in modo furente. Adam Schiff, deputato della California, ha promesso che il suo partito continuerà a indagare con o senza l'opposizione e ha affermato che l'inchiesta è stata chiusa troppo presto. In una nota diffusa venerdì, Schiff ha accusato i suoi colleghi dell'opposizione di "non aver indagato seriamente - o addirittura di non aver visto sebbene fossero in bella vista - le prove della collusione tra la campagna di Trump e la Russia, assumendo invece il ruolo dell'avvocato difensore di fronte a testimoni chiave". Secondo Schiff, ci sarebbero inoltre delle significative discrepanze tra la bozza diffusa a marzo e le conclusioni finali, in particolare il passaggio nel quale, nella prima versione, si asseriva che Putin non avrebbe espresso una chiara preferenza per Trump sulla Clinton, passaggio poi stralciato dalla versione finale dopo essere stato passato al vaglio dell'intelligence. Su questo punto specifico, in realtà, non ci sarebbe nemmeno troppo da discutere: Putin, durante la campagna elettorale Usa, aveva effettivamente espresso apprezzamento per la dichiarata volontà di Trump di migliorare le relazioni con Mosca. Né avrebbe potuto fare altrimenti, dato l'approccio assai meno conciliante manifesatato invece dalla Clinton, soprattutto in merito ai conflitti in Siria e in Ucraina.
Ma anche qualche Repubblicano è perplesso
Che Nunes abbia agito come "un avvocato di Trump" è una critica che viene però sollevata anche all'interno del 'Gop'. MIke Conaway, Repubblicano del Texas, ha sottolineato da una parte che il rapporto finale dà agli americani "l'opportunità di accedere alle informazioni utilizzate per trarre le conclusioni emerse dalle risultanze e dalle raccomandazioni del mese scorso" ma dall'altra ha lamentato l'eccesso di omissis imposti dall'intelligence, definendolo "un eccesso di zelo estremamente deludente" nonché inefficace, dato che alcune delle informazioni cassate e annerite sarebbero comunque di dominio pubblico. "Quando iniziammo l'indagine, volevamo dare al popolo americano le risposte alle domande che si era posto e promettemmo di essere il più trasparenti possibile nel rapporto finale", ha affermato Conaway in un comunicato, "non credo che le informazioni che abbiamo diffuso oggi rispettino questi standard".