Nelle acque del Giappone è stato scoperto un tesoro di oltre 16 milioni di tonnellate di terre rare, abbastanza per soddisfare diversi secoli di consumo globale nell'ambito delle tecnologie moderne, dai magneti per i veicoli ibridi al laser. Una scoperta che potrebbe consentire al Giappone di strappare alla Cina l'attuale dominio sul settore. E di modificare gli equilibri geopolitici: le terre rare sono elementi vitali per l’industria militare, aerospaziale ed elettronica.
La profondità di questo deposito naturale (più di 5 chilometri), individuato nel 2012 nei pressi dell'isola di Minami Torishima, ne aveva reso difficile lo sfruttamento commerciale. Fino ad oggi. I tecnici locali hanno infatti messo a punto una tecnologia per estrarre le risorse in modo efficiente. La notizia, pubblicata sulla rivista britannica Scientific Reports nella notte italiana, ha fatto volare le azioni di società minerarie e costruttori di veicoli del Paese asiatico.
Il team di ricerca, guidato dai professori Yasuhiro Kato, Università di Tokyo, e Yutaro Takaya, di Waseda, ha progettato un sistema che permette di estrarre le risorse che potrebbero cambiare l'economia del Giappone. Le analisi hanno rivelato che c'è abbastanza materia per coprire 730 anni di domanda globale di disprosio, un elemento usato nei magneti per veicoli ibridi, e l'equivalente di 780 anni di applicazioni per l'ittrio, utilizzato nei laser. Inoltre, c'è anche un volume equivalente a 620 anni di fornitura di europio e terbio 420, utilizzati nei composti fluorescenti e nelle celle a idrogeno.
Cosa sono le terre rare
Un gruppo di 17 minerali, dal lantanio al lutezio, dallo scandio all'ittrio, indispensabili nella produzione di numerosi prodotti ad alto contenuto tecnologico. Smartphone, turbine eoliche, componentistica per auto ibride: è praticamente impossibile che un componente ad alto contenuto tecnologico non abbia una percentuale di questi metalli (generalmente intorno allo 1,1-5%, anche se i magneti permanenti contengono neodimio per il 25%). Un esempio? Le terre rare sono presenti in ogni componente di un autovettura.
Non così rare
Non sono così rare come suggerisce il nome. Come spiega in dettaglio un articolo pubblicato su l’Espresso, sono infatti materie molto diffuse sulla crosta terrestre. Il primo minerale, cui fu dato il nome di itterbite, fu scoperto su un’isola dell’arcipelago di Stoccolma nel 1787; era di color nero, e si presentava come un miscuglio di una serie di ossidi mai analizzati prima. Fu così che dieci anni dopo queste sostanze furono chiamate “terre rare”.
Dal misterioso miscuglio, furono estratti due nuovi elementi, ittrio e cetrio, e solo nel 1907, cento anni dopo, fu estratto l’ultimo elemento, il diciassettesimo, cioè il lutezio. Ci volle molte tempo per completare la separazione degli elementi, a causa di proprietà chimiche molto simili.
I ricercatori del XVIII XIX secolo le chiamarono “terre” perché all’epoca così venivano indicati i minerali che non potevano essere modificati dalle fonti di calore. Furono poi identificate in quanto “rare” perché, diversamente da altre terre, quali la calce o la magnesia, si presentavano in quantità relativamente inferiori. Ma lo sono non tanto perché disponibili in basse quantità sulla crosta terrestre (il cerio, il più abbondante dei lantanoidi, è più comune del rame), quanto per la bassa concentrazione dei depositi, in genere inferiore al 5% in peso; ciò ovviamente incide sui costi di estrazione molti alti, che possono essere affrontati grazie alla manodopera a basso costo o con il supporto di sussidi statali.
Monopolio cinese
Sconosciuti fino a un centinaio di anni fa, negli ultimi 25 anni la Cina si è affermata come principale produttore al mondo di questi metalli, con 105 mila tonnellate: una quota pari all’81% della produzione mondiale nel 2017 (era il 27% nel 1990 e il 97% nel 2012, segno che negli ultimi anni la corsa alle terre rare, e le relative controversie globali, ha ridotto il peso cinese). Tra gli altri principali Paesi produttori, figurano l’Australia e la Russia, che ne producono rispettivamente 20 mila e 3 mila. Di fatto, la Cina ha affermato un monopolio in termini di produzione, pur non avendo il totale controllo dei giacimenti: detiene il 37% delle riserve mondiali (stimate a 120 milioni di tonnellate), seguita da Brasile (18%) e Russia (15%).
Sono in molti a ritenere che la Cina utilizzi queste risorse come strumento politico, centellinando i rifornimenti e aumentando le tasse sulle esportazioni.
Era accaduto nel 2010, quando Pechino annunciò la riduzione al 40% delle quote di terre rare destinate alle esportazioni, una misura che molti osservatori giudicarono protezionistica, tesa ad avvantaggiare i produttori locali, e che la Cina giustificò appellandosi a motivi di tutela ambientale. Una notizia sciocante per i Paesi occidentali dipendenti dalle importazioni dei preziosissimi elementi chimici, in primis Giappone, Stati Uniti e i Paesi dell’Unione Europea, soprattutto la Francia: la riduzione della fornitura cinese rischiava di mettere in ginocchio le industrie fortemente legate alle tecnologie specializzate. Nei tre anni precedenti l’annuncio del bando, la quota cinese della produzione mondiale era balzata al 97%.
La controversia si inseriva in un contesto regionale dominato dalla disputa territoriale proprio con il Giappone legata alla sovranità delle isole Diaoyu (Senkaku nella dizione nipponica), rivendicata sia da Pechino che da Tokyo, inaspritasi dopo il sequestro da parte delle autorità nipponiche di un peschereccio cinese che era entrato nelle acque contese. La questione approdò alla sede dell’Organizzazione Mondiale del Commercio (Wto), che cinque anni dopo impose a Pechino di revocare la restrizione delle esportazioni dei metalli.
Nel frattempo, non solo si era innescato un durissimo confronto sul commercio internazionale delle terre rare tra Giappone, Stati Uniti, Europa e Cina, con profonde implicazioni geopolitiche, ma i prezzi dei minerali erano aumentati in modo vertiginoso, generando la corsa dei produttori occidentali a riaprire le vecchie cave, come nel caso della società statunitense Molycorp Minerals LLC che acquistò lo storico giacimento di Mountain Pass in California, costretto a chiudere verso la fine degli anni Novanta, non reggendo alla concorrenza cinese. Un triste epilogo che - scrive sempre l'Espresso - si ripetè nell’arco di appena due anni, quando i produttori cinesi decisero di abbassare i prezzi di vendita, mandando in bancarotta il giacimento californiano.
Fu Deng Xiaoping, l’artefice delle riforme che spalancarono il mercato cinese agli investitori stranieri, ad avere l’intuizione delle terre rare; era il 1985, quando il giacimento di Bayan Obo in Mongolia Interna sfornò 8500 tonnellate, pari al 21% della produzione mondiale, superando l’anno successivo gli Stati Uniti come maggiore produttore. Deng avviò un massiccio sfruttamento dei giacimenti promuovendo il Programma 863, consapevole che i misteriosi metalli sarebbero stati fondamentali nello sviluppo dei prodotti tecnologici avanzati. Se i paesi arabi hanno il petrolio, la Cina ha le terre rare, disse Deng nel 1992. In pochi anni, la Cina era arrivata a coprire oltre il 90% della produzione mondiale.
Oggi Xi Jinping punta al Piano "Made in China 2025", il mastodontico programma di innovazione tecnologica con cui la Cina punta a diventare leader dell’hi-tech, dalla robotica all’AI, bersaglio dei recenti dazi proposti da Trump, che accusa Pechino di forzare le aziende americane a trasferire il know how tecnologico, violando i diritti di proprietà intellettuale. Sfruttare le terre rare resta dunque un obiettivo strategico per l’industria cinese. Mentre si smorzano la tensioni sui dazi dopo le parole di Xi dal palco del Boao Forum (la Davos asiatica), che ha promesso la riduzione delle tariffe sull’importazione di auto e una maggiore tutela della proprietà intellettuale, lo sfruttamento dell’enorme giacimento giapponese apre nuove sfide all’ascesa della Cina come superpotenza globale.