Sarebbero dieci i paesi dell’Unione Europea pronti, in un gesto di fortissima solidarietà con il Regno Unito dopo l’avvelenamento dell’ex spia Sergei Skripal, a procedere con una espulsione coordinata di personale diplomatico russo dalle rispettive capitali. Se fosse vero quanto riferito ancora oggi dal Financial Times, si tratterebbe del più forte strappo da parte europea nei confronti del Cremlino dalla decisione, quarant’anni fa, di accettare sul suolo del Vecchio Continente gli euromissili.
Crisi diplomatica e politica, oggi, come allora era duro confronto anche sul piano militare. Il risultato è molto simile: rendere più lontane le capitali dell’Ue da Mosca, e rinsaldare inevitabilmente il rapporto con Washington, indipendentemente dall’afflato che si prova nei confronti dell’inquilino della Casa Bianca. Qualcosa di simile a quanto sta avvenendo con Londra, da cui si è divisi – anche aspramente – dopo la decisione referendaria sulla Brexit, ma non è un caso se proprio in questi giorni si sia raggiunto un primo accordo sulla tempistica. Anche perché sullo sfondo si muovono sempre più inquietanti le ombre delle presunte ingerenze russe nelle elezioni politiche occidentali, e sullo stesso referendum del giugno 2016.
Chi sta con Londra
Insieme alla Gran Bretagna sono pronti a cacciare i diplomatici di Putin anche la Polonia ed i tre stati baltici: la prima tradizionalmente rivale della Russia e divenuta col tempo il più zelante membro della Nato nell’area; i secondi da sempre timorosi di ogni possibile fiammata di ritorno della politica russa nei loro confronti, dopo l’indipendenza da Mosca ottenuta a caro prezzo dopo il 1989. A loro si aggiunge la Francia, la prima a prendere le parti di Londra in questa vicenda. E gli altri? Il Financial Times non li nomina, ma andando per ragionamento logico si può arrivare a tracciare il quadro generale della situazione che, a guardar bene, delinea qualcosa di più di un semplice posizionamento dei 28 di fronte alla crisi.
La difficile posizione di Berlino
La Germania di Angela Merkel ha espresso la sua fortissima solidarietà al Regno Unito fin dal primo momento. Ha rilanciato nelle recenti settimane quell’asse franco-tedesco che è stato il motore trainante dell’integrazione europea, ma al tempo stesso ha una politica di attenzione nei confronti del Cremlino. È fisicamente al centro dell’Europa, e questo è un motivo in più per evitare fughe in avanti, anche e soprattutto se dovesse sentirsi tirata per il vestito dalla Polonia. Più inclini ad assumere posizioni antirusse sono anche i paesi dell’Europa Centrorientale, oggi radunati sotto il cartello del Gruppo di Visegrad. Il più pesante tra loro, la Polonia, ha già fatto la sua scelta di campo. Ma Repubblica Ceca, Slovacchia e Ungheria sono frenate (soprattutto quest’ultima) dal comune vento sovranista ed euroscettico che le ha portate recentemente ad ammiccare in direzione di Putin. Occorrerà vedere quale di queste due spinte sarà, alla fine, la più forte. Più facile che la solidarietà a Theresa May arrivi dall’Irlanda, anche perché non servirebbe inasprire ulteriormente i rapporti nella fase delle trattative sulla Brexit che riguardano il delicatissimo nodo del confine tra Dublino e Belfast. Facile anche che ci si schieri apertamente a fianco della Gran Bretagna da parte di quei paesi che una volta facevano parte dell’Efta, l’area di libero scambio creata a suo tempo da Londra, sul finire degli anni ’50, proprio per fare concorrenza al Mercato Comune Europeo. Più che di un ritorno ai vecchi amori, si tratterebbe di una dimostrazione di nervosismo da parte dei paesi i cui interessi si affacciano sul Baltico. L’estate scorsa la Svezia è tornata a svolgere manovre militari che presupponevano un’invasione da parte dell’esercito russo.
Ma il versante Sud guarda a Mosca
Discorso diverso sul versante sud dell’Europa: Grecia e Cipro sono tra gli interlocutori privilegiati di Putin all’interno dell’Ue. In particolare il premier greco Tsipras ancora nelle ultime ore ha fatto sapere che, a suo avviso, la questione dovrebbe essere affrontata con tutte le cautele del caso. Quanto alla Spagna, nelle ultime settimane è tornata ad affacciarsi la questione di Gibilterra, proprio all’interno di quella enorme complicazione internazionale che sono i negoziati sulla Brexit. Facile immaginare che la cosa avrà il suo peso, soprattutto in considerazione del fatto che Mariano Rajoy guida un governo di minoranza che ha costante bisogno di nuovi consensi interni per gestire la crisi della Catalogna.
“Penso che le misure dei singoli paesi saranno applicate già a partire dalla prossima settimana”, prevede la presidente della Lituania Dalia Grybauskaité, la prima ad annunciare ufficialmente l’adesione alle richieste britanniche. Quando uscirà la lista completa del fronte che si oppone a Putin, si capirà.
Si capirà quanta parte dell’Ue è ancora disposta a fare causa comune con la Gran Bretagna, riconoscendole almeno in questo frangente una sorta di capacità di iniziativa all’interno dell’Unione; se ci sarà uno spostamento generale in direzione dell’Atlantico; se il Regno Unito potrà svolgere un ruolo, indipendentemente dalla Brexit o a dispetto di essa, nell’Europa Continentale. Se la rinata Europa Carolingia è sufficientemente forte per sostenere la prossima fase di, si spera, rilancio del processo europeo. Se i paesi del fronte sud manterranno una libertà e capacità di iniziativa oppure, indeboliti per cause diverse, saranno costretti ad un ruolo secondario almeno nell’immediato futuro. E quest’ultimo aspetto tocca direttamente l’Italia.