L’America è un po’ più sola, l’Europa un po’ più debole. Aiutata dal fuso orario, la Cina è stata la prima potenza mondiale a mandare i suoi complimenti a Vladimir Putin, riconfermato presidente in Russia con il 76 percento dei voti. “Al momento il partenariato tra Cina e Russia, di cooperazione generale e strategica, è al livello più alto nella Storia”, ha scritto Xi Jinping, anche lui appena rafforzatosi al punto tale da essere nominato presidente a vita (votato all'unanimità), “e rappresenta un esempio di costruzione di un nuovo tipo di relazioni internazionali basato sul rispetto reciproco, la giustizia, la correttezza e la cooperazione. Questo porta al successo ed alla creazione di una comunità che abbia un futuro condiviso per l’umanità”.
Al di là delle parole noiose – ma un impero millenario ha bioritmi mentali diversi da quelli di un lettore medio occidentale – colpisce non tanto l’invio delle congratulazioni, ma la sottolineatura che i rapporti sono al massimo storico, e che esistono le condizioni per una realtà alternativa a quella dell’America di Donald Trump.
Tra Pechino e Mosca si salda l’asse dei grandi imperi orientali. Non che sia un asse d’acciaio, perché la storia del XX secolo ci ha insegnato che nemmeno l’essere avvicinati dalla comune ideologia marxista ha impedito loro di vivere una lunga e talvolta poco pacifica rivalità. Ma è anche vero che dal 2001, anno in cui fu firmato da Putin e dal predecessore di Xi, Jiang Zemin, il Trattato ventennale di cooperazione amicale e di buon vicinato, i rapporti sono sempre andati migliorando. Quasi mai, nella storia delle relazioni tra i due paesi, si sono viste lune di miele durare così a lungo. Al punto che in occasione della crisi coreana, o di quella siriana, l’una potenza ha lasciato guidare le danze all’altra, corroborandone le iniziative per arrivare ad un risultato finale soddisfacente per entrambi. Un win-win game che ha dato i suoi frutti, permettendo a Putin di tornare a svolgere in Medioriente quel ruolo che a Mosca era negato dalla guerra per il Kuwait del 1991 ed a Pechino frontiere ben più tranquille a nord-est e un Centrasia più disponibile alla realizzazione della Nuova Via della Seta.
I tempi paiono maturi per un ulteriore passo, quello che nel trattato di quasi trent’anni fa era presentato solo come qualcosa di futuribile: la cooperazione militare. Allora si diceva che occorresse aumentare il rapporto di fiducia tra le rispettive forze armate. Oggi si parla apertamente di cooperazione militare. Secondo l’International Institute for Strategic Studies di Londra sono aumentate sia la capacità bellica di entrambi i colossi, sia i segnali di una concreta comunità di intenti. Nel Rapporto 2018 dell’Istituto, una delle più accreditate istituzioni ad occuparsi di materia militare dai tempi della Guerra Fredda, si legge esplicitamente che gli Usa potrebbero ritrovarsi scavalcati nella loro tradizionale primazia in campo di capacità belliche. Inoltre a giugno Putin sarà in Cina per il vertice dell’Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai, e difficilmente si tratterà di un viaggio di solo piacere.
Non un gran risultato per la politica di Trump, tutta incentrata sul concetto di America First e sull’idea che tutto si risolva ripartendo meglio i conti con gli alleati europei della Nato, ad iniziare da Germania ed Italia. Washington perde terreno in Asia, non riesce a riaffermare la propria leadership esattamente come negli anni del grande shock seguito alla vittoria di Mao sul Kuomintang ed allo sviluppo sovietico dell’arma nucleare. Nelle ultime settimane si sono moltiplicato gli allarmi per la possibile cooperazione sino-russa allo scopo di sviluppare armi in grado di sostenere un confronto bellico nello spazio.
In tutto questo, l’Europa subisce gli effetti perniciosi di una frammentazione e di un indebolimento dell’Occidente. La Manica è più larga, l’Atlantico pure; il richiesto aumento di partecipazione alle spese della Nato di certo non aiuterà le politiche per il rilancio dell’economia ed il superamento della fase sociale della crisi. Ancor peggio: il fianco est della Nato e quello dell’Ue (sostanzialmente coincidenti) si trovano sempre più esposti alle sospette aggressioni digitali provenienti da quella che una volta si sarebbe chiamata l’Oltrecortina. La prossima frontiera della corsa agli armamenti, forse, non è nemmeno lo spazio, ma quella della supremazia digitale. Se si hanno dubbi a proposito, si veda la copertina dell’ultimo numero dell’Economist.