Da due settimane Twitter è sommerso di messaggi con l’hashtag #MosqueMeToo: è lo slogan con cui migliaia di donne musulmane denunciano le molestie subite durante l’hajj, il pellegrinaggio a La Mecca, in Arabia Saudita.
La tendenza è stata lanciata dalla giornalista e femminista egiziano-statunitense Mona Eltahawy sulla falsa riga dell’hashtag #MeToo, quello seguito alle rivelazione delle attrici di Hollywood importunate da Harvey Weinstein.
“Rompiamo il silenzio” Eltahawy aveva raccontato le molestie subite durante il pellegrinaggio, che rappresenta il quinto pilastro dell’Islam e un’esperienza che tutti devono fare almeno una volta nella vita, già nel suo libro intitolato “Headscarves and Hymens, Why the Middle East Needs a Sexual Revolution” pubblicato nel 2015.
Quando aveva appena 15 anni, nel 1982, la giovane affrontò l’hajj: durante i sette giri attorno alla Kaaba, l’imponente costruzione che domina l’interno della grande moschea di La Mecca, la ragazza allora appena quindicenne aveva sentito una mano appoggiarsi sul suo fondoschiena. “Non ero mai stata toccata da un uomo – aveva scritto nel libro -, non potevo correre e, se anche avessi trovato il coraggio per girarmi verso la persona che mi stava molestando, non ci sarei riuscita perché lo spazio era troppo affollato”.
Ogni anno, secondo la Bbc, circa due milioni di fedeli prendono parte al pellegrinaggio nel luogo più sacro dell’Islam. Nel libro Eltahawy scrive di essere stata toccata anche da un poliziotto proprio nel momento in cui stava per baciare la Kaaba: “Se anche lui l’ha fatto, come avrei potuto sperare che lamentandomi cambiasse qualcosa?”.
Da allora sono trascorsi più di 35 anni, ma le donne musulmane hanno finalmente trovato il coraggio di denunciare quanto, almeno stando alle testimonianze sui social network, sembra essere l’abitudine. Migliaia di tweet A spingere Eltahawy a rilanciare via Twitter la sua denuncia è stata una donna pakistana, Sabica Khan, che su Facebook aveva raccontato un’esperienza simile capitatale proprio a La Mecca.
E anche se il suo post non è più online, da quel momento sui social sono arrivate altre migliaia di testimonianze. Anche Aisha Sarwari, cofondatrice dell’organizzazione Women's Advancement Hub che aiuta le donne pakistane a lottare per veder riconosciuti i propri diritti, è entrata nel dibattito raccontando l’esperienza di un’amica che, dopo aver subito molestie, aveva dovuto tenere per sé quanto accaduto, senza possibilità di raccontarlo per vergogna e paura dei giudizi altrui.
“Le donne musulmane, come tutte, subiscono molestie, ma quando queste avvengono in un contesto religioso viene chiesto loro di non denunciarle per una ragione più grande. È ingiusto e opprimente”, ha spiegato la stessa Sarwari lo scorso 6 febbraio.
Se la diffusione di #MosqueMeToo ha spinto alcuni a manifestare su Twitter i propri sentimenti contro la religione musulmana sostenendo che alcuni passi del Corano insegnino “la schiavitù sessuale e gli stupri coniugali”, sulla rivista Slate Aymann Ismail ha ricordato che “in quanto fedeli all’Islam siamo tenuti a proteggerci l’un l’altro”. Un compito cioè di cui gli stessi uomini devono farsi carico, “non soltanto portando alla luce questi fenomeni, ma parlando con i propri fratelli e amici dicendo loro di smettere di aggredire le donne”.