D'inverno camminano i pinguini sulla spiaggia di Mar del Plata. Quando Susana disse: "Come mi piacerebbe accarezzarne uno!", il marito Carlos la accontentò. Raccolse un sasso e centrò in testa il più vicino. Prese il pinguino in spalla e sorridente lo portò, tutto insanguinato, alla inorridita Susana: "Tu sei matto!". Lui se ne spiacque: "Non avevi detto che volevi toccarlo?".
E' un episodio da tenere a mente per capire come mai l'indio argentino Carlos Monzón detto El Macho, uno dei più grandi pugili della storia, gettò la moglie dal balcone dopo averla strangolata. Un omicidio che trent'anni fa - la notte di San Valentino 1988 - sconvolse l'Argentina e la divise. Il femminicidio non era registrato in un Paese dove le botte a casa erano comuni. Ma pochi giorni dopo, l'8 marzo, cominciarono a esserlo meno perché sull'onda emotiva del caso Monzón le donne marciarono davanti al Parlamento di Buenos Aires e le prime denunce per violenze domestiche cominciarono ad arrivare ai commissariati.
"Come un anello di Tiffany"
No, la vittima di Carlos non fu Susana Giménez, sua seconda moglie dal 1974 al 1978 fra la prima Mercedes Beatriz García e la terza Alicia Muñiz, la modella uruguayana che il 14 febbraio '88 finirà assassinata. Susana racconterà anni dopo di essersene andata per non subire quella sorte. Lui belva, generoso, bambino che forse la spaventò per sempre con il pinguino insanguinato in spalla "come un sacco di patate", "come se mi portasse un anello di brillanti di Tiffany".
Carlos conobbe Alicia in un ristorante nel 1978. Lei 23 anni, attrice, modella; lui 36, lasciata da poco la boxe, ultimo incontro con il colombiano Rodrigo Valdéz. Cento sfide disputate, 88 vinte di cui 59 per ko nella categoria dei medi, molte vittime illustri fra cui Emile Griffith e l'italiano Nino Benvenuti in due celebri match nel '70. Monzón è spietato. Anche con sé: sul ring non torna più perché nell'animo gli manca - o spregia - la corda del patetico.
"Carlos non posso lasciarlo solo". "Ho fatto tante volte la valigia e sono andata via": Alicia lo dice in parecchie interviste nel corso di un rapporto a montagne russe, di baci, di botte e di un figlio, Maximiliano, sei anni all'epoca di quel San Valentino. Succede in un appartamento d'affitto a La Florida, Mar del Plata, il posto dei pinguini. Monzón è in vacanza. Alicia ha già fatto la valigia definitiva. Si sono separati, ma il 13 febbraio lei va a trovarlo per parlare degli alimenti al bambino.
Il muscolo rubato
Baci e botte, ma quella sera chi li vede immagina soltanto i primi. Classica coppia riconciliata. Vanno al casinò, al compleanno di un amico all'Hotel Provincial per brindare, poi ancora champagne al Club Peñarol e finalmente a casa. Qui la lite. Qui le botte spazzano i baci. E' in calle Pedro Zanni 1.567, citando non per vezzo il preciso indirizzo. Perché ancora anni dopo i turisti a La Florida vanno a fotografare il balconcino al primo piano da dove Carlos prese la moglie come un giorno il pinguino. "Come un sacco di patate" dirà un mezzo barbone alcolizzato, un cartonero che passava: Rafael Crisanto Bàez, chiamato davanti alla Corte, sarà preciso testimone. Come per un riscatto: nella baracca dove sopravvive i giornalisti trovano scritto alla parete "Ho battuto Monzón". Cade anche Carlos dal balcone, forse era ubriaco, si rompe una clavicola e le costole. Dice che non ricorda. Poi ricorda poco. Poi ricorda male.
La foto di Alicia al suolo è cruda, persino crudele, ma i giornali argentini la sparano anche a colori e su nove colonne. Titoli tipo: "A cazzotti con l'amore", "Il primo knockout di Monzón". Un'autopsia non basta per decifrare l'accaduto: ce ne vuole una seconda a Buenos Aires. Come l'ha uccisa? Un pugno? Quello non è stato fatale: è morta strozzata e qualcuno, in un clamoroso tentativo di inquinare le prove, ha rubato al cadavere il muscolo sternocleidomastoideo sinistro dopo il primo esame necroscopico, quindi ha richiuso con una sutura alla buona. I medici incaricati della seconda autopsia se n'accorgono dai punti di cucitura che non coincidono. Il muscolo avrebbe attestato la compressione dei vasi sanguigni che blocca l'afflusso di sangue al cervello, ma il furto macabro non basta. Per i giudici l'esame dei polmoni è sufficiente.
Monzón, tra chi acclama "Coraggio campione!" e chi gli grida "Mostro!", è condannato per omicidio a undici anni il 3 luglio 1989. Tra chi grida "Campione!" l'amico Alain Delon, il quale giustifica Carlos e lo sostiene. Si diffonde la voce, ne girarono tante, che lo avrebbe fatto evadere mandandogli un elicottero.
Morirà invece l'8 gennaio '95. Colpa sua: correva come un matto in macchina mentre tornava in carcere da una battuta di caccia. Gli avevano accordato la semilibertà e dormiva nella prigione di Las Flores nella provincia di Santa Fe, dove era nato 52 anni prima poverissimo e così fragile nel fisico che nessuno avrebbe scommesso tre pesos su quel che agguantò nella vita, dall'alloro incontrastato di pugile alle numerose bellissime donne. Forse fu grazie alla puerile spietatezza che lo assassinava da sempre e che lo fece assassino.