Pallottole ed apple pie. Bailey Nicole aveva 15 anni quando un compagno di classe le ha sparato al volto, uccidendola in corridoio insieme ad un amico. Ora l’assassino è sotto torchio per chiarire tutto il possibile di questa nuova Columbine che si è svolta in un posto remoto del Kentucky chiamato Benton: se qualcuno lo ha convinto a farlo, se c’entri qualcosa Internet o per lo meno il Lato Oscuro della Rete, se sia stato convertito magari al verbo omicida dell’Isis.
Come, poi, si sia procurato le armi. Ma questa è la cosa più facile del mondo da appurare, e tutti o quasi sanno già dare una risposta: dall’armaiolo sotto casa, dove basta un documento ed esci con il semiautomatico.
Quello che anche questa volta ci si rifiuterà di vedere è la mattanza dei bambini nelle scuole d’America: siamo alla fine di gennaio e dall’inizio dell’anno sono già 11 le scuole del paese in cui si piange una piccola, tremenda strage.
Oppure un suicidio in classe, con uso di arma da fuoco appositamente portata da casa nello zainetto. Un giorno sì e uno no, nel pieno rispetto della tabella di marcia che vede in 50 il numero dei casi del genere da quando la campanella ha ricominciato a suonare, a settembre scorso, per l’inizio dell’anno scolastico.
Martedì è stato il liceo di Benton, lunedì una mensa scolastica a Dallas e, in contemporanea, il parcheggio di una scuola a New Orleans. Prima uno scuolabus in Iowa e il campus di un college nella California meridionale. In un paesino del Texas chiamato Italy, una settimana fa, una ragazzina di 16 anni s’è presa una pallottola all’addome speditagli da una compagna di classe gelosa.
Per fortuna se la caverà, ma resta la domanda: nessuno si rende conto di cosa voglia dire tre sparatorie ogni settimana? Quando ci fu la strage di Columbine, in Colorado, con due ragazzi appena un po’ meno normali degli altri che uccidono 13 coetanei, la gente reagì scioccata, e Michael Moore ne tirò fuori un capolavoro di documentario. Ma era il 1999, vent’anni fa, ed ora sembra subentrato un senso di assuefazione.
Gli Usa si sono abituati?
Lo ammettono anche i gruppi che si battono per la limitazione della vendita delle armi: il ripetersi di certi episodi ci ha anestetizzato, e paradossalmente è quasi colpa di quei 20 bambini di prima elementare che, nel 2012, ebbero il torto di farsi massacrare con le loro maestre a Newton, in Virginia.
“Certi casi hanno perso la capacità di interessare”, lamenta Shannon Watts, fondatrice di “Moms demand action”, l’associazione sorta all’indomani di quella strage degli innocenti. Il fatto è, spiega, che “ci troviamo di fronte ad una vera e propria crisi nazionale, in cui sette minorenni al giorno sono vittime di un assalto armato”. Ma la cosa non pare più scuotere le coscienze, narcotizzate come sono da “un ciclo di informazioni che ruota sempre più veloce, non dà il tempo di riflettere e di indignarsi”.
I dati li fornisce uno studio dell’Fbi, che sottolinea anche come l’andamento sia sempre più frenetico: dal 2000 al 2006 i casi registrati erano 16, dal 2007 al 2012 erano già 23.
Ci si interroga su cosa fare. Si pensa a più esercitazioni da far fare agli studenti, qualora l’orco si affacci alla porta della scuola. Oppure a legislazioni che prevedano la concessione di speciali permessi di possesso di un’arma all’interno dei comprensori scolastici, per essere pronti a rispondere a tono in caso di aggressione armata. In altre parole: armare i professori e i bidelli. Avevano pensato ad un provvedimento del genere anche in Kentucky, lo scorso anno. Forse il bidello sceriffo avrebbe potuto salvare la vita a Nicole ed al suo compagno. Forse no: quando si inizia a sparare in una scuola, non sai mai come va a finire.